Weimar non è solamente il nome di una città tedesca, dove si riunì l’Assemblea Nazionale che redasse una nuova costituzione dopo la prima guerra mondiale e che denominò (non ufficialmente) il Reich tedesco nel periodo tra il novembre 1918 e il 1933, quanto la metafora della fragilità della democrazia liberale.
Legittimare una democrazia liberale in un periodo di grande instabilità politica e di forti conflitti interni prodotti da una gravissima crisi economica, si rivelò infatti fallimentare in Germania e favorì l’ascesa al potere di Adolf Hitler.
Eppure il travaglio della Repubblica di Weimar durò per circa quindici anni e fu ricco di contraddizioni sia sul piano politico che su quello sociale. L’intreccio tra iperinflazione, disoccupazione, abbassamento della qualità della vita, democrazia contrattata, instabilità politica, frammentazione partitica e visioni personalistiche dei decisori incise allora sulla fine di quell’esperienza, sancita dalle elezioni del 5 marzo 1933, dopo l’incendio del Reichstag e l’arresto dei deputati comunisti del KPD.
Ogni paragone con l’oggi italiano è, sul piano storico, impossibile e velleitario. Sul piano metaforico invece sono possibili illazioni e speculazioni, suggerite dalle analogie e dalle similitudini.
Non c’è una guerra mondiale, ma una pandemia che sta producendo una crisi sanitaria che è anche economica e sociale. C’è una crisi istituzionale, legata all’impossibilità di avviare i democratici processi di ricambio e di rinnovamento fino a minare legittimità e autorevolezza ai cardini del sistema. C’è una frammentazione del quadro politico, dominato da personalismi che sembrano prevalere sulla difesa del bene comune. Le elezioni, considerate risolutive se non salvifiche, sono dietro l’angolo, con la prospettiva di cambiare l’intero assetto parlamentare.
Dominano personaggi non progetti o visioni d’insieme, piccole forze politiche dettano l’agenda politica mentre soggetti, ben più rappresentativi, o tacciono o subiscono l’iniziativa di altri. L’intero ceto politico italiano appare stressato, incapace di riappropriarsi di spazi che gli competono, come se la democrazia liberale, oltre che fragile appaia inutile. Il ricorso a governi tecnici, neutrali, non espressione né di una politica né di una ideologia, sembra essere l’ultima spiaggia, prima del diluvio (elettorale). Eppure è l’unica strategia che si intravede. Non le elezioni anticipate, considerate impossibili se non pericolose in tempi di pandemia, quanto una soluzione moderata della crisi, un sottile spostamento a destra, per ridare forza a un centro politico da tempo evaporato, ma ancora presente nelle aspettative e nei desiderata di deputati e senatori. A partire dal senatore di Rignano, artefice del possibile futuro governo Draghi, con Conte ormai fuori gioco e con lui l’asse PD-5Stelle, con Forza Italia nelle condizioni di smarcarsi dalla egemonia della destra sovranista. Matteo Renzi è il vero vincitore di questa ultima fase politica, a lui spetteranno le spoglie dei vinti, non i ministeri ma i veri centri di potere (e di sottopotere). Altro che sociopatico, egocentrico, caratteriale, per cui si sono scomodate le categorie della psicosociologia e della psichiatria. Renzi è un tenace e abile persecutore di una precisa linea politica, incentrata su un netto spostamento a destra, coerente da sempre con la sua formazione e il suo percorso, anche quando era il segretario del Partito Democratico. Rischia però di dominare sulle rovine della democrazia liberale.
Ma siamo nel campo delle metafore.
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