1.
Risale al Seicento l’idea dell’arte postclassica come arte di decadenza e del Manierismo come un fenomeno di gretta routine artistica, legata alla pedissequa imitazione dei grandi maestri. Una pratica d’arte ricercata, ma stereotipa, riducibile ad un formulario. Una imitazione tutta esteriore e nello stesso tempo un intimo distacco dal mondo classico.
Nei fatti il moderno classicismo non riesce a rappresentare una soluzione stabile e duratura alla dinamicità sociale e politica di quel periodo, dominato da una alta borghesia sulla strada di trasformarsi in aristocrazia, da una Curia romana diventata una potenza capitalistica e politicamente ambiziosa e caratterizzato dalla rottura rovinosa dell’unità cristiana e dal crollo dell’egemonia economica dell’Italia, invasa da Francesi e Spagnoli.
Salta lo statico equilibrio delle forme classiche e sul piano artistico diventa impossibile rispettare la regolarità e l’armonia troppo semplice di quel modello per sostituirvi caratteri più soggettivi e suggestivi. Sono indotti da una esperienza religiosa più profonda e più intima, da uno spiritualismo mistico o da un intellettualismo esasperato, che deforma consciamente e volutamente la realtà, toccando spesso il bizzarro e l’astruso o da un gusto raffinato che traduce ogni cosa in sottigliezza ed eleganza. L’imitazione dei modelli classici è un tentativo di conservarne le conquiste formali, un ricorso alla tradizione per difendersi dall’irrompere troppo impetuoso del nuovo, sentito non solo come principio di vita ma anche di distruzione.
2.
Nasce così un complesso di naturalismo e spiritualismo, di formalismo e anarchia formale, di concretezza e astrazione che disintegra quell’unità spaziale, che era stata la più significativa espressione della visione artistica rinascimentale. L’unità della scena, la coerenza locale della composizione, la ferma logica della struttura spaziale erano stati per il Rinascimento i più importanti elementi dell’effetto artistico.
Il Manierismo dissolve la struttura rinascimentale dello spazio, scomponendo la scena in più parti, separate non solo esteriormente, ma anche nel diverso modo con cui ognuna è costruita nel suo interno, nelle proporzioni e nelle possibilità di movimento. Non c’è più un rapporto logicamente significativo tra le proporzioni della figura e la loro importanza nel soggetto, tant’è che elementi apparentemente accessori spesso risaltano prepotentemente, mentre quello che sembra essere il vero soggetto è rimpicciolito e ricacciato nello sfondo. L’effetto finale è un movimento di figure reali in uno spazio irrazionale, costruito arbitrariamente, una combinazione di particolari veristici in una cornice fantastica.
Lo spazio non è più la categoria fondamentale dell’immagine del mondo ma il Manierismo, mentre cerca di evadere da ogni definizione spaziale, non rinuncia all’effetto dinamico della profondità. Lo spazio assume un carattere irreale, compensato dal rilievo, spesso esagerato e dal movimento, per lo più eccessivo.
3.
C’è oggi l’esigenza di distinguere fasi e filoni diversi in quell’aggregato di centri e personalità artistiche che si è soliti sommariamente accorpare sotto la definizione di Manierismo, un concetto divenuto, per uso e abuso, ambiguo e sfuggente. Una risposta possibile e credibile è quella di limitare l’uso di quella etichetta storiografica alla stagione dell’arte che domina i decenni centrali e conclusivi del XVI secolo, senza dover necessariamente risalire agli anni che precedono il Sacco di Roma (1527) o l’incoronazione dell’imperatore Carlo V a Bologna (1530). Ciò comporta non tanto un semplice spostamento di date, quanto la individuazione di un baricentro romano, a scapito di uno toscano, con la relativa messa in discussione di una “maniera” stimolata da opere rivoluzionarie come il Tondo Doni, il cartone per la Battaglia di Cascina o il dipinto murale con la Battaglia di Anghiari e dominata dalle figure di Alonso Berruguete, del Rosso Fiorentino e del Pontormo giovanili e del più anziano Domenico Beccafumi. Al contrario ne diventa protagonista tutta una generazione di artisti, nati all’alba del secolo e vissuti all’ombra delle grandi imprese vaticane di Raffaello di Michelangelo, che, dopo il Sacco di Roma, dissemina nella sua diaspora un linguaggio figurativo aulico e forbito, capace di radicarsi nelle corti grandi e piccole d’Italia e d’Europa.
Non tanto un declino, caratterizzato da una teatralità gratuita e declamatoria, da spazi affollati e sovraccarichi, dall’ossessiva e superficiale imitazione delle forme michelangiolesche, da un eccesso di pratica e dal culto dell’artificiale, quanto l’aderenza agli ideali di una società sofisticata, elegante e cosmopolita, tutt’altro che priva di estrosità creativa o tanto meno indifferente ai valori estetici. Un percorso artistico a cui neanche è attribuibile un dichiarato anticlassicismo, un violento irrazionalismo e un allucinato spiritualismo.
4.
Il Manierismo è l’espressione artistica della crisi che nel Cinquecento scuote tutto l’Occidente, investendo insieme la vita politica, quella economica e quella intellettuale.
Il rivolgimento politico si inizia con l’invasione dell’Italia da parte di Francia e Spagna, che devastano e soggiogano la penisola. I francesi con Carlo VIII occupano prima Napoli, poi Milano e infine Firenze e mantengono il loro predominio in Lombardia fino al 1525, quando vengono sconfitti dagli Spagnoli di Carlo V, che assume il dominio di tutta Italia e invade Roma nel 1527, lasciandola, dopo otto giorni di devastazioni, si saccheggi e di uccisioni, in completa rovina. Nel 1530 anche Firenze è in mano spagnola, dove si insedia, abolendo la repubblica, Alessandro de’ Medici, mentre satelliti della Spagna sono gli Estensi a Ferrara e i Gonzaga a Mantova. E’ comunque una egemonia militare e finanziaria che non riesce a manifestarsi sul piano culturale dove sono ancora forti le premesse quattrocentesche.
Il baricentro mondiale del commercio, con le nuove rotte atlantiche, non è più il Mediterraneo e nell’organizzazione dell’economia internazionale contano ormai i nuovi stati nazionali, che possono contare su una amministrazione accentrata e che controllano enormi territori. Al capitalismo primitivo si sostituisce il grande capitalismo moderno, passaggio favorito da un grande afflusso di capitale monetario, soprattutto metallo nobile americano, e la iniziale trasformazione dell’azienda artigiana in grande impresa industriale, affiancata da quella del commercio a vera e propria attività finanziaria. Lo scatenarsi della libera concorrenza determina, da un lato, la fine del sistema corporativo e, dall’altra, provoca lo spostamento dell’attività economica verso campi più vasti e lontani dalla produzione di beni.
Questa trasformazione impetuosa ed espansiva produce sia crisi finanziarie che sociali, che riguardano non tanto le grandi dinastie regnanti, i banchieri e gli speculatori di professione, ma soprattutto le grandi masse, colpite da disoccupazione, urbanesimo (conseguenza dello spostarsi dell’interesse dalla produzione agricola a quella industriale), aumento dei prezzi, contrazione dei salari. La categoria sociale più danneggiata è comunque quella dei contadini, dove il malcontento raggiunge l’acme, come in Germania.
5.
Una tale trasformazione epocale provoca il fallimento dei sogni universalistici, inserisce dubbi su una visione orgogliosamente antropocentrica, mette in discussione la piena conoscibilità della natura e della dominabile razionalità della storia e innesca una crisi generale che, all’inizio del secolo, nel campo artistico, si manifesta in una incessante curiosità sperimentale, caratterizzata da una enfatizzata forzatura dei toni espressivi ed espressione di una concezione drammatica dell’esistenza. E’ un ribaltamento polemico provocato da una ventata “anticlassicista”, guidata da un ideale disarmonico e eterodosso e che ha come principali rappresentanti il Rosso Fiorentino, Jacopo da Pontormo, Alonso Berruguete e Domenico Beccafumi, ma anche figure minori attive a nord come a sud della Toscana.
Negli stessi anni si afferma un diverso impasto culturale, una sorta di parlata classicistica, che definisce un modulo intimamente classicheggiante, senza però ricorrere alla tipologia del mondo antico. E ’un capitolo non esclusivamente fiorentino (Credi, Ridolfo Ghirlandaio, il primo Granacci, Giuliano Bugiardini, Antonio del Ceraiolo), perché perlopiù negli stessi anni (fra il 1500 e il 1515) qualcosa di analogo si verifica in Emilia, in Lombardia, in Umbria (Lorenzo Costa e il Francia a Bologna, Boccaccio Boccaccino e D’Aleni a Cremona, Pietro Vannucci a Perugia).
In contrapposizione a questo equilibrato ideale classicistico, anche e sopratutto nelle stesse aree culturali, si leva una vera e propria insorgenza artistica, disegnando percorsi tortuosi e imprevedibili, con diversificate componenti interne, a cui appartiene l’inesauribile ricerca di nuove soluzioni linguistiche del Pontormo, ma anche una sorta di espressionismo anticlassico di Lorenzo Lotto e l’ideale grottesco di Amico Aspertini e, in parte, di Cola dell’Amatrice. E’una pattuglia d’artisti variegata, ma non eterogenea, saldamente collegati tra loro da un comune atteggiamento mentale basato sull’insofferenza per un codice figurativo privo di rischi e di inventiva. E’loro una diffusa forzatura dei temi psicologici, i sussulti di ritmo, lo spalancarsi imprevedibile di vuoti accanto al groviglio di pieni, le dissonanze, le incongruenze, le asimmetrie. E’pertanto quasi naturale per loro l’attrazione per la cultura d’oltralpe, tedesca in particolare, con una disponibilità a mescolare le due culture, ben oltre una ibridazione, fino ad una vera e propria immedesimazione.
Sono comunque allievi, anche se scomodi, ribelli, inquieti dei grandi protagonisti dell’epoca, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, “maestri del classicismo senza errori”. E’nella bottega di Andrea del Sarto, un altro dei “maestri senza errori”, che crescono gli irregolari che fanno capo al Rosso, al Pontormo, a Jacone, al giovane Bandinelli, che si rapportano al loro maestro come un protagonista prestigioso ma inaccessibile, privo ormai di una serena autorevolezza. Dai maestri prendono comunque le mosse, mutuando ed esasperando le loro aspirazioni artistiche, i loro travagli spirituali, le loro ricerche cromatiche.
6.
Nel breve volgere di tempo che separa la morte prematura di Raffaello (aprile 1520) dalla brutale invasione dell’esercito imperiale di lanzichenecchi (maggio 1527) Roma diviene il terreno di incubazione della Maniera. Nell’industrioso cantiere raffaellesco, rimasto orfano del maestro, emergono la forte personalità di Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio, Perin del Vaga e Giovanni da Udine. Dalla Toscana giungono Rosso Fiorentino e Benvenuto Cellini e da Parma Francesco Mazzola detto Il Parmigianino. In questo terreno di coltura fermentano ricercatezza stilistica, gusto per la citazione archeologica, l’eleganza stilistica, si stemperano le inquietudini anticlassiche per avviarsi verso una nuova regola più ampia, spregiudicata e tollerante. L’austero pontificato di Adriano VI, estraneo e ostile alle arti, raffredda questa atmosfera e provoca una diaspora di artisti, che però è di breve durata, grazie all’elezione nel 1523 di un nuovo papa, Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, che richiama a Roma un gran numero di nuovi talenti. Gli anni che precedono il Sacco sono vissuti in una atmosfera edonistica, in una Roma spensierata, godereccia, libertina. In questo contesto nasce la serie scandalosa dei Modi di Giulio Romano, incisa da Marcantonio Raimondi, a cui fanno da pendent i Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino e gli Amori degli dei di Perin del Vaga. Tutto è come congelato dai lanzichenecchi luterani, un trauma che sarà presto riassorbito dalla cultura romana nel suo complesso, ma che provoca una immediata fuga degli artisti dalla città devastata, favorendo la rapida disseminazione di quei germogli della Maniera che a Roma avevano messo le prime radici. Perin del Vaga è a Genova, il Parmigianino torna definitivamente in Emilia, Rosso Fiorentino, dopo aver girovagato per qualche tempo in Umbria e Toscana, si trasferisce in Francia, dove lo raggiungono Primaticcio, Niccolò dell’Abate, Sebastiano Serlio e Benvenuto Cellini. Anche Iacopo Sansovino abbandona Roma per Venezia e Polidoro da Caravaggio raggiunge il sud italiano, prima Napoli e poi la Sicilia.
7.
Negli anni trenta del Cinquecento si affaccia alla ribalta la generazione nata intorno agli anni dieci, che ha come protagonisti Daniele da Volterra, Giorgio Vasari, Francesco Salviati, Jacopino del Conte che portano la Maniera ad una fase più matura e contribuiscono a rimuovere, quasi esorcizzandola, la profonda crisi che attraversa l’Europa, resa più acuta dalla drammatica lacerazione del mondo cristiano, incanalandola in una non più lacerante dialettica tra norma ed eccezione, tra razionalismo e irrazionalismo, tra naturalezza ed artificio, dove le antitesi si annullano in un più ampio e disincantato canonismo, ambiguo e sofisticato, brillante e artificioso.
La osmosi di nuove convenzioni espressive è favorita, da una parte dalla circolazione capillare di stampe e disegni, grazie alla loro riproducibilità ormai a bassissimo costo, dall’altra parte dalla pratica sempre più diffusa dei grandi apparati effimeri allestiti in occasione di grandi eventi politici o religiosi o di cerimonie di corte. Le messe in scena spettacolari con finalità apologetiche o adulatorie favoriscono il costituirsi di equipes di specialisti, che si sciolgono e si ricompongono, magari in un’altra città, diffondendo ulteriormente un modello di consuetudini rappresentative codificato dalla Maniera. Grazie a questi grandiosi apparati, in grado di mobilitare un gran numero di artisti di ogni provenienza, il manierismo si diffonde in tutt’Europa. I connotati di tale stile, pur mantenendo una comune radice e analogie di fondo, di differenziano al momento dell’innesto nelle singole situazioni locali, soprattutto in quelle aree di tenace tradizione gotica, che avevano ignorato o erano state appena sfiorate dal classicismo rinascimentale.
8.
Nonostante la complessità della vicenda storiografica del manierismo cinquecentesco, per i troppi itinerari geografici e cronologici e per le tante tendenze e controtendenze, i connotati che si possono individuare, perché più vistosi, sono un metalinguaggio ipernutrito di cultura, ambiguamente oscillante tra invenzione e citazione, tra arcaismo e avanguardia e uno sperimentalismo lambiccato, estroso, a volte anche venato di inquietudine. Tutta l’estetica manierista si dibatte, traendone anche alimento, nella contraddizione tra l’intrinseca “soggettività” di questo stile e la tendenziale oggettività “dell’imitazione naturale”, un conflitto tra i continui richiami all’imitazione della natura e i paralleli incitamenti al suo superamento.
Il suo tramonto è legato al conflitto con una cultura normalizzata dalla Controriforma e con una società rifeudalizzata, fino a quando, a partire dal Seicento, assume un significato dispregiativo che dominerà nella letteratura artistica per arrivare fino all’oggi.
Del resto c’è una accezione “cortigiana” del termine Maniera, intesa come modo di essere e di atteggiarsi della persona, come codice di comportamento della vita sociale. Belle buone maniere, eleganza ma anche controllo di sé, artificiosità di modi abilmente dissimulata sotto una patina di spontaneità e di naturalezza, in un equilibrio di ricercatezza e di spontaneità. E’quanto si richiede nelle corti cinquecentesche, da quella serena e luminosa di Urbino a quelle principesche, dominate dalla rigida etichetta spagnola, dove il culto della forma spesso scivola in un estenuato formalismo, la ricerca di stile in una accanita stilizzazione, la venerazione per i maestri in una esangue coazione a ripetere. Ciò nonostante è adottata come linguaggio figurativo di tutte le grandi corti europee, con una straordinaria irradiazione internazionale, ma con lo stigma di una vita di corte, non come un aulico modello di vita civile, ma come un rifiuto della stessa, in un avvitarsi progressivo nella propria contemplazione narcisistica.
9.
Nel Cinquecento lo stile aulico per eccellenza è il Manierismo. Manieristi sono a Firenze i pittori medicei e quelli di Francesco I a Fointainebleau, di Filippo II a Madrid, di Rodolfo II a Praga, di Alberto V a Monaco. Nelle corti minori, meno fastose e più raccolte, molti artisti godono della generosità dei loro protettori e di un ambiente più intimo e meno pretenzioso. Il Manierismo delle corti, specie nella forma più tarda, acquisisce una dimensione europea e diventa il primo grande stile internazionale dopo il gotico. La lingua e l’arte italiana acquistano dappertutto con il Manierismo credibilità e autorevolezza e le sue conquiste si diffondono in tutta Europa.
Il rinnovamento religioso, il nuovo misticismo, l’ansia di affrancarsi dalla materia, il desiderio di redenzione, il disprezzo del corpo e l’immergersi nell’esperienza del soprannaturale esprimono a questo punto un linguaggio artistico comune, in cui, spiritualizzando la figura umana, senza negare il fascino della bellezza fisica, si accentua la visione personale dell’artista e si fa appello all’esperienza individuale dell’osservatore.
10.
Nell’età della Maniera si affiancano due fenomeni artistici che, pur appartenendo a generi diversi, quali la letteratura e la pittura, mettono in evidenza l’affinità di certi procedimenti mentali e stilistici. In letteratura il gusto del bizzarro, del capriccioso, del caricato è presente nella commedia, nel poema eroico, nella novellistica mentre in pittura si affermano fenomeni figurativi come la decorazione “a grottesche”. Entrate nel repertorio figurativo alla fine del Quattrocento, al momento della scoperta casuale a Roma delle sale interrate e dipinte della Domus Aurea neroniana, dilagano poi nel Cinquecento, aggregando elementi incongrui, eterogenei, incompatibili, facendo trionfare l’illogico, l’antiproporzionale, il fiabesco. Con le grottesche l’arte si concede innumerevoli “licenze poetiche”, non è più schiava del vero e neppure del verosimile e si pone come unico limite l’inimmaginabile. La regola della grottesca ha comunque modelli di riferimento e un intero repertorio di stereotipi, quali esili girali vegetali, chimere, festoni, arpie, candelabri proteiformi, figurine in volo o in equilibrio precario, mascheroni grifagni, una iconografia prevedibile e scontata, che si presta ad una ripetitività artigianale, degna di botteghe dove è possibile e redditizio il lavoro in équipe, la suddivisione dei compiti, la frammentazione delle mansioni, la piena disponibilità di espedienti tecnici.
11.
Il coinvolgimento dello spettatore, il raccordo tra lo spazio fisico e mentale di chi guarda e lo spazio simulato della rappresentazione diventa una caratteristica dell’ingegnosa intelaiatura compositiva elaborata dal Manierismo. Diventano abituali le immagini incomplete, veri e propri spettatori che mostrano la testa o comunque solo una parte del corpo, affacciati ai margini della composizione, per sconfinare, sia pure virtualmente, nello spazio dello spettatore e proporsi come mediatrici tra chi guarda e quanto è raffigurato. Sono altrettanto abituali meccanismi di coinvolgimento più sfumati e allusivi legati alla meccanica degli espedienti ottici o all’inserimento di figure totalmente distaccate dal contesto, per suggerire stupore, attrazione, curiosità se non raccapriccio e terrore.
Altrimenti il rapporto con chi guarda è diretto, quasi traumatico, perché chi è rappresentato guarda direttamente negli occhi, attira il suo sguardo nel proprio sguardo, lo invita ad osservare e reagire emotivamente, per coinvolgerlo in uno spazio introspettivo.
Per questo il gusto manieristico della metamorfosi, dell’inganno, della sperimentazione trova nel teatro un punto di applicazione privilegiato. La scena teatrale è il luogo per eccellenza dello scambio fra realtà e finzione e grazie ad architetti pittori come Girolamo Genga, Baldassarre Perussi e lo stesso Raffaello, diventa illusionistica, grazie ad una scienza prospettica sempre più smaliziata e all’apporto mimetico di tecniche e materiali effimeri, quali stucco, tela, cartapesta, a esili e ingegnosi trucchi di scena se non a mastodontici macchinari.
12.
La celebrazione festiva con il trionfo del provvisorio, di cui il teatro è un momento particolarmente strutturato, assume nell’Età della Maniera un ruolo centrale, imponendosi come uno dei modelli linguistici e operativi che incidono più a fondo nelle strutture formali dell’espressione artistica.
Le celebrazioni artistiche cortigiane su scala urbana e a carattere profano si moltiplicano sia nei grandi centri urbani che nelle città più periferiche, con una mobilitazione di energie creative e di risorse economiche senza precedenti ed appaiono come la spia del ruolo strutturalmente e culturalmente centrale che la festa svolge in quell’epoca nell’economia complessiva del rapporto tra produzione artistica e società. La festa è uno dei principali modelli di riferimento del codice figurativo cinquecentesco. La finzione, la provvisorietà, l’infrazione sono i suoi ingredienti costitutivi, perché effimera, simulata e compensatoria è la trasgressione dell’ordine naturale e sociale che vi realizza. L’incontro e la mediazione tra dominanti e dominati, la camera di compensazione delle tensioni sociali deve conservare sempre il suo carattere di eccezionalità. Vi contribuiscono gli artisti, con una trasgressione affidata agli apparati posticci, al mescolamento di linguaggi e tecniche diverse, a infrangere i vincoli delle regole logiche e strutturali, fornendo continui pretesti all’illusione, al gioco, alla contaminazione, al nuovo.
Il decollo della Maniera viene così individuato, e non a caso, nei grandi apparati allestiti nel 1530 nelle maggiori città italiane in occasione dell’incoronazione di Carlo V e in quelli realizzati per il suo rientro dalla vittoriosa spedizione militare di Tunisi nel 1535-36. Questi eventi imperiali fanno giungere a piena maturazione il lungo processo di maturazione del manierismo, fungendo da catalizzatore e da veicolo per l’affermazione della Maniera come lingua franca europea.
13.
Le allegorie e le grandi scene storiche di battaglie passano direttamente dagli archi posticci e dagli addobbi delle quinte stradali alle decorazioni ad affresco delle sale di rappresentanza dei potenti. Il linguaggio dell’effimero penetra nei palazzi e compaiono nei grandi cicli decorativi manieristi finte architetture che si spalancano per lasciare intravedere cieli e paesaggi, inserti naturalistici che si affiancano alle allegorie più erudite e cerebrali, quadri che si aprono dentro altri quadri, bruschi passaggi di scala, finti stucchi che si confondono con quelli veri. Si rivela una trama di inganni e disinganni, ottici e psicologici e l’affresco finge i marmi e i preziosi rivestimenti dell’architettura, imita cammei e medaglioni dorati, il bronzo, il mosaico la terracotta.
E’il passaggio tra effimero e permanente, tra architettura provvisoria e architettura stabile. L’architettura cinquecentesca supera il naturalismo umanistico, allenta le maglie di una concezione rigorosamente costruttiva della figuratività architettonica per arrivare sia al plasticismo antropomorfico michelangiolesco sia al pittoricismo scenografico delle “case dipinte”. Le superfici architettoniche diventano un campo di libere variazioni cromatiche, chiaroscurali in cui si innestano i più svariati inserti narrativi e ornamentali.
Si afferma un comune vocabolario ornamentale, fitto di riferimenti classici e traboccante di busti, nicchie, targhe, medaglioni, trofei, festoni, grottesche.
Nel contempo l’esperienza della scenografia teatrale confluisce nella pratica della progettazione architettonica. A Firenze, gli Uffizi vasariani, con le due diverse fughe prospettiche delle ali degli edifici affrontati, sono uno scenario permanente realizzato su scala urbana.
14.
I parchi e le ville manieristiche utilizzano innumerevoli spunti ed espedienti forgiati nel laboratorio teatrale cinquecentesco. Quinte architettoniche e arboree, schermi che dilatano allusivamente lo spazio, labirinti, trabocchetti, apparizioni a sorpresa, congegni semoventi appaiono in tutte le più note ville dell’epoca, dal mantovano Palazzo del Te a Villa Giulia a Roma, dalla fiorentina Pratolino a Villa d’Este a Tivoli, dalla veneta Villa Garzoni alla laziale Villa Bagnaia.
Il giardino manierista è fitto di siepi geometriche e di forre selvagge, percorso da labirinti e giochi d’acqua, popolato di automi e di giganti. La grotta è il topos per eccellenza, l’insieme di rocce, stalattiti e conchiglie si confonde con la pittura e l’architettura. Sensi e ragione sono continuamente messi alla prova, come nel Sacro Bosco di Bomarzo, ingannati e disingannati, in una alternanza di apparizioni demoniache e di pause consolatorie, di incubi e di sogni.
Il mondo di Bomarzo, mostruoso e inquietante, irrompe anche nel cuore delle città, ispirando i capricci biomorfi delle invenzioni architettoniche di Bartolomeo Ammannati e di Bernardo Buontalenti, anima le cariatidi che si sporgono dagli edifici di Milano o di Genova, genera i mostri che si affacciano da Palazzo Zuccari a Trinità dei Monti, mentre in Europa dilaga una decorazione fantastica e metamorfica che si innesta sul proliferante ornato della fiammeggiante tradizione tardo gotica.
15.
All’interno della cosiddetta Controriforma, intesa come risposta del mondo cattolico allo scisma protestante, vanno individuate due tendenze dominanti, con personalità e indirizzi dottrinali sostanzialmente divergenti tra loro e spesso attivamente contrapposti, al cui interno, a loro volta, si possono individuare varianti e sottovarianti, risultato di un panorama frastagliato in ragione delle diverse circostanze storiche e geografiche: la Riforma cattolica e la Restaurazione cattolica. Lo stesso Concilio di Trento è un travagliato e estenuante confronto tra diverse linee ed ipotesi, che, anche a rischio si semplificazione, è possibile ricondurre a queste due opzioni principali.
E’ inevitabile che un tale processo di metamorfosi della coscienza religiosa cinquecentesca si compenetri con la produzione artistica, anche per il radicale cambiamento dell’ambiente culturale e della committenza.
In particolare si fa difficile il rapporto tra manierismo e Restaurazione cattolica, perché la Maniera è un linguaggio sofisticato, spesso ermetico, erudito, con ammiccamenti esoterici, rivolto in primo luogo a dell’élites culturali e sociali, mentre la Chiesa post-tridentina decide di contrattaccare anche sul terreno della rappresentazione del sacro, elaborando una strategia delle immagini intese come strumento di devozione e di edificazione popolare. Non c’è solo l’esigenza di un costante controllo sull’ortodossia iconografica, ma anche l’elaborazione di un linguaggio visivo semplice, pedagogicamente efficace. L’estetica tridentina prescrive agli artisti chiarezza pedagogica ed efficacia comunicativa, capacità di suggestionare gli spettatori condizionandone emozioni e comportamenti e massima duttilità, cioè disponibilità ad adeguare l’arte allo scopo.
Nella seconda metà del secolo si assiste pertanto ad una difficile convivenza tra Controriforma e Maniera, che vede un lungo processo di logoramento e di riconversione del manierismo, compreso il rifugio in terre estranee al crescente bigottismo, quali le corti di Francesco I a Firenze o quella praghese di Rodolfo II d’Asburgo o nel chiuso di ville e palazzi privati. La Maniera così è relegata in ambiti circoscritti e progressivamente erosi, marginalizzati, mentre emerge un indirizzo di stampo classicistico, didascalico, arcaizzante, nostalgico, che si affianca ad un indirizzo di stampo naturalistico che propone all’arte un tonificante bagno nella realtà, preludendo alla rottura rivoluzionaria del realismo caravaggesco. Una mediazione tra i due indirizzi è il classicismo naturalistico dei Carracci che apre altri scenari, tutti orientati da una nuova gerarchia dei valori.
Nella Maniera prevale ormai un clima di opportunismo, dominato da esigenze di convenienza e di decoro, che finirà per confluire nell’esaltante scenario del barocco.
(1° maggio 2019)
Fonti:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Volume primo, Preistoria Antichità Medioevo Rinascimento Manierismo Barocco, Torino, Einaudi, 1977
Antonio Pinelli, La bella Maniera Artisti del Cinquecento tra regola e licenza,Torino, Einaudi, 2003
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