Lorenzo Lotto

1.

Con il Concilio di Trento tutto cambia e la stessa produzione figurativa è costretta ad adeguarsi ai nuovi canoni di decoro, ai nuovi scrupoli di ortodossia, ai nuovi compiti pastorali e pedagogici, alle nuove finalità celebrative dell’età controriformistica.

Nei due o tre decenni precedenti scultori e pittori, architetti e musicisti, al pari di ogni altro gruppo sociale, sono coinvolti nelle inquietudini religiose variamente scaturite dal confronto con le dottrine d’oltralpe. Ciò influisce nel loro modo di pensare e produrre immagini, aprendo profonde contraddizioni fra tradizione figurativa e innovazione teologica, tra scrupoli di verità ed esigenze di cautela, fra volontà di testimonianza e vincoli di committenza.

E’ una stagione che in Italia vede dilagare dottrine variamente connotate in senso ereticale, con cui non è possibile non avere una stretta contiguità, anche perché largamente diffuse anche tra i più fidati collaboratori dei potenti e avvallate spesso da intellettuali e accademici.

Dar corpo comunque ad un sentire religioso difforme rispetto all’ortodossia cattolica comporta in quel periodo il rischio di un grave isolamento e cospicui rischi personali e per un artista diventa pressoché obbligatorio tenere per sé la propria identità religiosa fino a nasconderla, rinunciando ad assegnare ai suoi dipinti o ai suoi scritti ogni compito didascalico, consegnandolo magari a qualche piccola trasgressione iconografica e a qualche minuto dettaglio.

Questo di fatto impedisce oggi di cogliere pienamente il rapporto diretto tra sensibilità religiosa e scelte figurative, diventando difficile se non impossibile risalire dai contenuti figurativi e iconografici all’esperienza spirituale degli artisti, vissuti in un contesto in cui i margini di libertà del linguaggio pittorico e dei suoi codici iconografici devono fare i conti con un clima fortemente censorio.

Questo vale anche e soprattutto per Lorenzo Lotto, straordinario creatore di immagini, coinvolto, quando la sua vita errabonda trova momenti di sosta, in un mondo veneziano (e trevigiano) inquieto e tormentato in cui frequentazioni e amicizie lo fanno apparire un fautore delle dottrine religiose riformate. In realtà sembra animato dalle tensioni e speranze dell’evangelismo italiano, ma è esente da aperte deviazioni dottrinali, rimanendo comunque sensibile all’esigenza di rinnovamento della vita religiosa e dell’istituzione ecclesiastica.

2.

Lorenzo Lotto rientra a Venezia nel 1540 dopo un lungo soggiorno nelle Marche e trova ospitalità nella casa del nipote Mario d’Arman.[1] Per ricambiare fa dono alla famiglia che lo ospita di cibi, tessuti, vestiti, regali per i bambini e dipinti, tra cui due piccoli quadri, copie dei tanti ritratti di Martin Lutero e della moglie Katharina von Bora dipinti da Lucas Cranach e dalla sua bottega che circolavano in Italia e a Venezia e che il nipote Mario regala a sua volta a Giovan Battista Tristan.

I frequenti viaggi del Lotto, i suoi continui spostamenti fra Venezia e Roma, fra Bergamo e Recanati, fra Treviso e Ancona delineano il profilo di un uomo tormentato e perennemente insoddisfatto, inquieto, teso da una fede sofferta e problematica, vagante da un convento all’altro fino al ritiro come oblato nella Santa Casa di Loreto. Comunque è uno spirito indipendente, una personalità indocile, intimamente religiosa, aliena dal bigottismo e dall’ossequio cortigiano, cattolico che sembra esente da sbandamenti eterodossi, ma determinato a vivere intensamente e profondamente la propria esperienza religiosa.

Questa immagine si incrina con la proposta, molto discussa, di attribuzione al Lotto dei disegni per le incisioni destinate al frontespizio della prima edizione della traduzione biblica di Antonio Brucioli, pubblicata nel 1532 da Lucantonio Giunti, ma viene riconfermata dalla proposta, anch’essa molto discussa, di individuare negli affreschi dell’oratorio di Trescore, dipinti nel 1524 su committenza di Battista Suardi, un coerente impianto iconografico di ispirazione antiriformata. Anche la lettura di altre opere del Lotto, a partire dal Polittico di Ponteranica (Bergamo), passando per la Crocifissione di Monte San Giusto o la Santa Lucia di Jesi fino ad arrivare alla Madonna del rosario di Cingoli, riconferma un pittore sicuramente molto interessato alle dottrine d’oltralpe, ma comunque impegnato a rielaborare il repertorio iconografico religioso nella prospettiva di un rinnovamento della Chiesa, non nel suo rifiuto. 

3.

A riaccendere la polemica sulla esperienza religiosa di Lorenzo Lotto sono la sua dichiarata esigenza di una religiosità più interiorizzata, anche se mai esitata in un distacco dalla Chiesa di Roma, ma soprattutto la sua frequentazione delle conventicole eterodosse veneziane, in particolare del Brucioli con cui sembra, se autore delle immagini del frontespizio, condividere il progetto di una Bibbia in volgare, rendendo finalmente la parola di Dio accessibile a tutti, la partecipazione alla predicazione sospetta nel convento dei Santi Giovanni e Paolo e poi i legami a Venezia e Treviso con un mondo di piccoli borghesi e artigiani, un sodalizio di “Fratelli in Christo” in pieno sospetto di eresia.

La documentazione sui processi inquisitori subiti dal nipote Mario d’Arman[2] e dal gioielliere trevigiano Bartolomeo Carpan sembrano confermare che l’universo umano e religioso nel quale Lotto vive per più di un decennio è largamente percorso da problematiche di origine riformata, ma nessun documento riesce a dimostrare quanto Lotto fosse sensibile a questo clima, quanto non lo fosse affatto.

Dalle sue opere pittoriche non emerge alcuna conferma o sconferma, se non una rinuncia consapevole alla normativa formale dell’epoca, il rifiuto di ogni limitazione alla propria libertà espressiva, una tensione ideologica in antitesi con ogni forma di conformismo.

Si tratta a questo punto di capire le regioni della sua irrequietezza, che lo porta ad allontanarsi (o ad essere allontanato) dalla Curia romana e da Raffaello, e, deluso dal compiaciuto trionfalismo romano e dal classicismo celebrativo, scegliere la provincia italiana come ambiente di lavoro, e con essa anche una specifica dimensione sociale, un mondo di piccoli borghesi e di artigiani di modeste fortune, che vivono in una forma di solidarietà non solo di carattere religioso, ma comunitario. Una scelta che lo porta lontano dagli ambienti colti e raffinati del patriziato veneziano, spregiudicati nelle scelte ideologiche, ma tenaci nella difesa di antichi privilegi, pagando il prezzo di un forte isolamento come uomo e come artista. 

4.

Nel 1506 Lorenzo Lotto era giunto a Recanati, portando disegni e abbozzi di quello che sarà il Polittico di San Domenico, iniziando quella lunga ma discontinua frequentazione marchigiana di panorami, di abitati, di persone che lo porterà ad una produzione artistica che tuttora conta venticinque dipinti autografi conservati nelle chiese e musei della regione.

C’è da dire che quella esperienza riguarda solo una parte della realtà odierna, limitandosi alla legazione della Marca pontificia, senza alcun rapporto con il ducato di Urbino, né con i signori da Varano né con il ducato di Camerino, rimanendo pertanto estraneo agli ambienti cortigiani, ma non al mondo delle confraternite e dei piccoli potentati locali. La Marca è una comunità frammentata in numerosi centri locali, con ampi poteri giurisdizionali e statutari, con istituti e pratiche particolari, tutta riconducibile al governo pontificio (e al Legato con sede a Macerata) che disponeva di una capacità di controllo variegata, limitandosi spesso al solo ruolo di raccordo tra il centro e la periferia. La produzione agricola è l’elemento di base dell’economia, ma la Marca è anche una società mercantile con al centro Ancona e il suo porto, base fondamentale per l’esportazione di olio, vino, sapone, zafferano, carta di Fabriano, panni marchigiani a buon mercato e stoffe pregiate fiorentine, lombarde e fiamminghe e per l’importazione dal Levante di cotone, spezie, zucchero, seta, soda, allume. L’attività mercantile di Ancona è di fatto il volano di tutta la Marca e in particolare delle grandi fiere di Fermo e di Recanati. A questo si affianca nel XVI secolo il ruolo non solo religioso ma economico e politico del santuario di Loreto, con l’elevazione dell’abitato al ruolo di città e della chiesa come cappella papale della Santa Sede, sottratta alla diocesi di Recanati. Intorno alla Santa Casa si accumula un enorme patrimonio finanziario legato alle ricche elemosine e un vasto patrimonio terriero, sotto il controllo diretto del Papa. Tutto questo permette a Loreto di svolgere un ruolo attivo e determinante, quale baluardo dell’ortodossia cattolica, nella reazione controriformistica.

A Loreto Lorenzo Lotto muore nel 1557, oblato, avendo donato all’istituzione tutti i suoi beni, ma soprattutto sé stesso. 

5.

Negli ultimi mesi del 1508 Lorenzo Lotto riceve una proposta esaltante: impegnarsi a Roma, nei palazzi del papa. L’impresa termina nel 1512 e di essa non c’è traccia, né opere datate né databili. E’ un momento particolare che vede il cantiere michelangiolesco della Cappella Sistina e la distruzione bramantesca della vecchia basilica di San Pietro, ma forse la presenza ingombrante di Raffaello e quella altrettanto ingombrante di famosi umanisti e di ricchi committenti gli impedisco di emergere, già stravagante e pieno di scrupoli. Tant’è che la sua prima opera certa, dopo il soggiorno romano, la Sepoltura del Cristo di Jesi, sembra negare ogni lezione raffaellesca, con il prevalere sopra ogni formalismo di un rigore morale e di una intransigenza formale, esaltata dal paesaggio brullo sullo sfondo e per niente mitigata dalla nuvola sacra sorretta da angioletti quasi annoiati.

6.

Lorenzo Lotto, stabilitosi a Bergamo nel 1513, vi vive la stagione più felice della sua esperienza artistica. Nella commessa bergamasca trova infatti uno spazio di libertà estrema, tanto da inventare cromatismi vivaci, che sono, nel caso del coro della cattedrale di Santa Maria Maggiore, trasferiti su legno, grazie all’uso sapiente dei materiali e alle diverse tonalità delle essenze. I suoi disegni, trasformati in tarsie da Giovan Francesco Capoferri, sono di una qualità assoluta, con scene allegoriche cariche di significati arcani, di curiosi misteri numerici, di citazioni bibliche e cabalistiche. E’ un reticolo di simboli, che traduce in immagini una profonda ricerca spirituale e filosofica, lasciando a chi guarda innumerevoli possibilità di interpretazione, oltre i limiti di uno sguardo sommario, intrigato dalle immagini non abituali, enigmatiche e bizzarre.

Nella pittura abbandona schemi quattrocenteschi a favore di una ambientazione di tipo naturalistico, come nella Madonna in trono fra quattro Santi di San Bernardino, sfolgorante di colori, dove il gruppo sacro, intorno alla Madonna in trono, sotto l’etereo baldacchino retto da spericolati angeli volanti, è composto in un placido scambio d’affetti, che comprende, anche se isolato e scomposto, un angelo scrivano, che altro non è che un ragazzino innocente, intento nel suo compito, ma curioso e distratto. Vagano sull’intera rappresentazione ombre e luci, stemperando ed esaltando tratti e movenze, fiori e piedi che si incrociano, mani che danzano, il marmo del trono.

Nella pala gemella, quella si Santo Spirito, si ripropone, in toni più contenuti, la folla degli angeli appollaiati sulle nuvole e la placida radunata di Santi e, sotto il trono drappeggiato, un altro ragazzino, nelle vesti di San Giovannino, che abbraccia, quasi a soffocarlo, l’agnello di Dio. Sullo sfondo, sotto la nuvolaglia agitata dagli angeli, la serenità di un azzurro celeste e di un luminoso profilo terreno.

La Madonna in trono tra Santi di San Bartolomeo è invece una pala carica, sontuosa, dove un profondo voltone classico, chiaroscurato, è riccamente addobbato da angeli che stendono tappeti, tirano corde, sospendono emblemi e scritti, tra coroncine, piccoli stendardi, nastri, fiocchi, frange. Intorno al trono della Vergine si affollano dieci santi, aggraziati, quasi leziosi, ognuno rappresentato nel suo modulo. Il Lotto presenta il meglio di sé, quanto a simmetria raffaellesca e fantasia nordica, per soddisfare una committenza ricca ed esigente. La stessa che gli chiede quadri devozionali ma soprattutto ritratti, dove è in grado di cogliere il segreto di una personalità, senza indiscrezioni ed esibizioni superflue, ma netti, categorici, come nei fratelli Giovanni Agostino e Niccolò Della Torre, oggi alla National Gallery di Londra. In questi, come in tanti altri ritratti, i soggetti rappresentati “bucano la tela”, nel senso che viene infranta la separazione tra lo spazio interno del quadro e la percezione dello spettatore, perché i personaggi che compaiono nei dipinti guardano dritto davanti a loro, cercano una interlocuzione fuori dal quadro e la trovano anche grazie a tratti della loro cultura o dei loro ideali, esplicitati da oggetti, strumenti, animaletti, simboli, che emergono dalla incredibile danza delle loro mani. 

Lontano dalle suggestioni del suo tempo, classicheggianti e ossequiose, a Bergamo Lorenzo Lotto rivela doti anche di eccezionale narratore, come nelle Storie di Santa Barbara a Trescore Balneario. La sua inclinazione borghese, antieroica, di fronte ad un ambiente rustico e feudale, lo spinge a dipingere favole di benignità e devozione, un cartellone sacro dove si possono ammirare e quasi toccare con mano il fluire vegetale delle grazie di santità attraverso le mani di Cristo e insieme riconoscere vedute di città e di campagne, sentieri, alberi familiari, case del villaggio con tetti bassi, l’osteria con stallatico e poi cose di ogni giorno, il mercato di pani biondi e fraganti, cavoli verdissimi, uova e pulcini. Favole domestiche si alternano a favole mitiche, il martirio di Santa Barbara e le storia di Santa Chiara, in una patriarcale convivenza tra ricchi feudatari, pastori e bifolchi, damigelle e armigeri, vittime e carnefici.

7.

Le devastazioni e la fame prodotte dalle guerre e dalla peste lo inducono a tornare a Venezia nel 1525, anche per far giungere nelle Marche, utilizzando la più sicura via del mare Adriatico (il “golfo di Venezia”), molti suoi lavori commissionati in quella contrada. Si sente comunque un pittore maturo e vuole dimostrare in patria quello che aveva imparato e poteva insegnare. Lo fa con la Gloria di San Nicola ai Carmini dove affianca la gigantesca onnipotenza dei santi, padroni del cielo e delle fede, alla terrestre malinconia di un golfo marino al tramonto, sovrastato da costoni boscosi e alberi giganteschi, di cui uno brullo e scheletrico. Ma la Serenissima si conferma nei suoi confronti disattenta e distratta, se non ostile.

A Venezia Lorenzo Lotto vive per circa venticinque anni, interrotti da frequenti e prolungati soggiorni nelle Marche e dal trasferimento a Treviso tra il 1542 e il 1545, sino al definitivo spostamento ad Ancona nel 1549. Sono anni poco fortunati, in quanto il Lotto è considerato un pittore di secondo piano, sempre più emarginato dal trionfo tizianesco e con poche commesse. 

Prende dimora nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, a conferma dei suoi consolidati legami con l’ordine domenicano.

Il mondo veneziano è in subbuglio, percorso da molteplici fermenti.

Il sacco di Roma e la caduta dell’ultima repubblica fiorentina provocano l’esodo nella città lagunare di molti artisti in fuga che fanno di Venezia il maggior centro culturale italiano di quegli anni, favorito anche dalla circolazione di idee che si sviluppano intorno al fervido mondo delle tipografie cittadine. In quell’ambiente vivace ed aperto non è difficile trovare libri luterani e predicatori eterodossi, tollerati dall’atteggiamento cauto e talora ambiguo delle autorità della Serenissima, preoccupate di salvaguardare l’autonomia religiosa e politica della Repubblica dal potere imperiale e papale, ma anche i ricchi traffici con le città tedesche, garantiti dal potente fondaco germanico. 

In ogni angolo della città e in ogni gruppo sociale si discute e ci si confronta quasi quotidianamente sulle dottrine d’oltralpe.

Le inquietudini religiose, le appassionate discussioni e relative polemiche coinvolgono anche un microcosmo di artisti e intellettuali animato da comuni istanze di rinnovamento religioso, in cui lo spiritualismo del Lotto si accompagna all’umiltà evangelica delle chiese di Iacopo Sansovino e al rigorismo di Sebastiano Serlio, per citare alcune frequentazioni eterodosse del pittore veneziano.

Il 15 gennaio 1533 Lorenzo Lotto aggiunge un codicillo al testamento redatto due anni prima: l’invocazione preliminare alla Vergine è sostituita da quella all’Altissimo padre, Figlio e Spirito santo e nel codicillo annuncia la sua intenzione di ritirarsi dal mondo e la designazione, quale erede universale, dell’ospedale dei derelitti presso la chiesa di San Giovanni e Paolo.

C’è molto probabilmente la volontà di allontanarsi dalle fortissime tensioni e dagli ampi contrasti dell’ambiente veneziano e in particolare del convento domenicano in cui vive, che aveva già abbandonato come dimora nel 1531. Nell’anno della revisione testamentaria il Lotto è nelle Marche, dove soggiorna a lungo e consegna La Santa Lucia di Jesi (1533), dipinge, sempre a Jesi, la cappella nel palazzo dei Priori (1535), sottoscrive il contratto per la Pala dell’Alabarda in Ancona (1538), firma e data la Madonna del rosario di Cingoli (1539).

8.

Nell’ottobre del 1542 Lorenzo Lotto è a Treviso ed alloggia presso il vecchio amico Giovanni del Savon, accolto anche come precettore artistico dei figli del suo ospite. In quegli anni rinsalda la sua amicizia anche con personaggi di dubbia ortodossia religiosa, quali i fratelli Antonio, Vittore e Bartolomeo Carpan, gioiellieri. Nonostante la cordialità e familiarità con cui viene accolto in casa del Savon, alloggio suggeritogli dallo stesso Antonio Carpan, preoccupato della senilità, della solitudine e della inquietudine del Lotto, il pittore il 12 dicembre del 1545 abbandona la casa e la città, per tacitare pettegolezzi e dicerie  sul suo profittarsi della generosità dell’ospite, comunque sempre ripagata da regali e dall’impegno a corrispondere una pigione, di fatto largamente disatteso per l’insuccesso professionale a Treviso e la relativa indigenza, mal compensata da alcuni ritratti commissionabili da patrizi locali. 

Negli anni passati a Treviso, la città è preda di grandi fermenti ereticali, con una severa repressione con catture, processi, fughe, condanne, abiure ed esecuzioni. In questa viene coinvolto anche Bartolomeo Carpan, contro cui viene intentato a più riprese un processo per eresia dal Sant’Uffizio veneziano.[3]

I rapporti di Lorenzo Lotto con i Carpan risalgono agli anni trenta del cinquecento e riguardano prestiti di denaro, incarichi fiduciari, regali, compensi per prestazioni artistiche. Nel testamento sottoscritto nel marzo 1546 ricorda con particolare affetto i fratelli Carpan e nella grande pala dell’Assunzione della Vergine di Ancona Bartolomeo Carpan viene raffigurato nel San Tommaso con anello al dito e catena d’oro al collo e molti studiosi concordano nell’identificare nello stesso Carpan il personaggio del Triplice ritratto di orefice di Vienna. 

E’ impossibile stabilire quanto condividesse Lorenzo Lotto le intemperanze religiose del suo amico gioielliere, ma è certo che fosse anche sua la passione per i gioielli, tanto da custodirne gelosamente una amatissima collezione, fino a far risplendere nei suoi quadri ogni genere di anelli, collane, diademi, spille, orecchini tra gli ornamenti di mercantesse, di patrizi, di pontefici, di veneri allegoriche, perfino di sante. Sono sempre i gioielli a legare tra loro un gruppo di artigiani, indagati per eresia, perché orefici, tagliapietre, tornitori, lavoratori di madreperla, il cui capo, mastro Iseppo “orese”, conosce e frequenta Bartolomeo Carpan, non soltanto per comuni interessi professionali, ma per comuni orientamenti religiosi. Intorno al Carpan si viene a scoprire una rete di relazioni e complicità che fa riferimento al fervido mondo di artigiani e mercanti di oro e di gemme  le cui botteghe si affollano intorno a Rialto.

9.

Il 25 marzo 1546 Lorenzo Lotto sottoscrive un nuovo testamento. In questa nuova versione non ci sono più richieste di orazioni postume alla Madonna e a San Gregorio, ma l’affidamento solo alla bontà e alla clemenza di Dio e precise disposizioni per il funerale, con il corpo affidato alla nuda terra, rivestito in abito da frate, senza contorno né di religiosi né di ceri, quindi con l’esclusione delle confraternite.

Sono gli anni in cui le dottrine variamente orientate in senso filo riformato hanno in Italia il più largo consenso a partire dallo spiritualismo valdesiano fino alle comunità di “fratelli” calvinisti e alle componenti più radicali. Dopo il 1542 sono ancora in espansione, nonostante l’avvio di una repressione sistematica con l’istituzione del Sant’Ufficio romano e la fuga oltralpe dei principali rappresentanti del dissenso eretico. La propaganda, tramite la predicazione dal pulpito e la circolazione di libri stampati a Ginevra, Basilea, Poschiavo e anche a Venezia, conquista numerosi proseliti tra ecclesiastici, notai, maestri di scuola ma anche tra gente comune, coinvolgendo ogni gruppo sociale, perfino membri del ceto aristocratico. Alla fine degli anni quaranta del ‘500 l’attività di indagine e di repressione dell’Inquisizione fa venir meno le collusioni, le complicità, le omissioni sulle quali il dissenso religioso veneziano aveva potuto contare tra le stesse autorità della Serenissima, anche perché si cominciano a delineare le possibili implicazioni sociali e politiche di quell’eresie così marcatamente popolari. Il dissenso è però forte e radicato, tanto da diffondersi ancora nel decennio successivo e resistere fino alla conclusione del Concilio tridentino ed oltre. I gruppi e i movimenti eterodossi, ormai marcatamente calvinisti, sono sempre più isolati e fatti oggetto di un controllo inquisitoriale sempre più efficiente e rigoroso.

10.

Risulta abbastanza chiaro che Lorenzo Lotto negli anni trenta e quaranta del ‘500 è vicino a uomini e ambienti variamente connotati da orientamenti eterodossi, ma non è altrettanto chiaro con quale convinzione e consapevolezza teologica. La sua sfuggente identità religiosa è forse la conseguenza dell’esito deludente e contraddittorio dell’esperienza romana, con il disagio di misurarsi con la grande lezione raffaellesca, la conseguente emarginazione e le polemiche anticuriali, avvertibili nel San Girolamo penitente di Castel Sant’Angelo, compensata però dalla stagione feconda di Bergamo, dove è prepotente la devozione mariana, con l’esaltazione della funzione mediatrice della Vergine e delle virtù eroiche dei santi e dei martiri. Anche i contenuti degli affreschi nell’oratorio di Trescore testimoniano un impegno di fedeltà alla Chiesa di Roma. La Vigna del Signore è saldamente tutelata dalla Madonna, dagli apostoli, dai santi, dai martiri, dai padri e dottori della Chiesa. Anche le tarsie di Santa Maria Maggiore, per quanto ricche di significati simbolici, di messaggi morali, di implicazioni alchemiche e anche con ovvi e inconsueti significati anticlericali e anticuriali non sembrano comportare implicazioni ereticali, ma denunciano il discredito e il disorientamento della Chiesa di Roma, che nel 1527 subisce l’onta del sacco barbarico. Il clima religioso che si instaura in Italia in seguito alle feroci devastazioni iconoclaste del sacco di Roma, per l’atrocità dell’insulto e per l’ampiezza della ferita di cui si sono rese responsabili le soldataglie imperiali, si riflette nel tema della crocifissione che si affaccia nella produzione del Lotto e che raggiunge il suo punto più alto con la pala di Monte San Giusto. E’ una fervida partecipazione alla tragedia del Golgota, una folla di uomini, donne, armati sembra sopraffatta dal panico e dal dolore, ma l’ordito delle lance e dei tronchi, sapientemente illuminato, da ordine e leggibilità ai tanti sentimenti espressi sotto i tre crocifissi, le cui teste sono lambite dalle tenebre di una notte che si preannuncia eterna.

Il Cristo crocefisso ritorna in uno dei tondi della Madonna del rosario di Cingoli, uno delle tante, se non la più importante, testimonianze della storia evangelica, in cui si riflette un impegno didascalico rivolto agli illetterati, una precisa e devota pedagogia cristiana, con un linguaggio naturalistico minutamente descrittivo. E’ sempre la crocefissione il tema della tavoletta del 1523 Cristo crocefisso con i simboli della passione della collezione Berenson a Firenze donata all’amico Giovanni del Coro, architetto anconetano ed ingegnere abitante a Venezia, con cui Lorenzo Lotto ha una assidua frequentazione in tutto l’arco degli anni quaranta del 1500, molto probabilmente da identificare nel ritratto de l’Architetto di Berlino. E’ questa un’altra amicizia che conferma le ambiguità religiose del Lotto, dal momento che Giovanni del Coro nutre qualche propensione filoriformata, tanto da farlo emigrare a un certo punto in terre tedesche.

11.

Ricostruire la sensibilità religiosa di Lorenzo Lotto in base alla sua produzione artistica è difficile se non impossibile, anche perché questa è evidentemente condizionata da molteplici e mutevoli elementi di contesto e committenza.

Una eccezione può essere rappresentata dalla pala del Sant’Antonino di Venezia, dove accanto alla efficacissima rappresentazione di un groviglio di umanità dolente, affollata sotto il trono del santo domenicano da poco canonizzato, si affianca quella di una Chiesa distante e gerarchica, con il santo assiso sulla cattedra vescovile, lo sguardo abbassato sulla pergamena e quindi distratto rispetto alle suppliche dei diseredati, nonostante gli angeli gli sussurrino le loro richieste, mentre due chierici moderano l’irruenza dei postulanti e consegnano loro delle monete, ben separati da un’alta balaustra, a significare una Chiesa arroccata nella difesa dei propri privilegi e nelle sue strutture verticistiche, barricata dietro il muro che divide chierici e laici e separa il clero dai fedeli. E’ un Lotto che sembra vivere una lacerante contraddizione, tant’è che, ormai anziano, si trasferisce a Treviso, dove si vede rifiutare un lavoro commissionatogli dal patrizio veneziano Federico Priuli, raffigurante in una tavoletta un Cristo in gloria, oggi a Vienna, dove un redentore è circondato da un turbinio di angeli, uno dei quali solleva il calice che raccoglie il sangue che zampilla dal costato. E’ la celebrazione dell’Eucarestia, ma tutto è messo in discussione dalla vecchia seminuda seduta al suolo in un desolato paesaggio, al di sopra del quale il Cristo celebra il suo trionfo. E’ una immagine allegorica dell’eresia o è Eva che dopo la cacciata dal paradiso terrestre contempla il proprio sfacelo nel piccolo specchio da lei impugnato, a raffigurare l’umanità peccatrice, sulla quale il Salvatore celebra il suo trionfo nell’atto di assurgere al cielo e di lasciare il calice del suo sangue per la redenzione dal peccato originale?

Una ambiguità destinata a rimanere tale anche nella Pietà di Brera, dove una rigorosa composizione piramidale esalta l’intensità spirituale della rappresentazione di una tragedia che è l’evento centrale della storia e della teologia cristiana. La speranza di salvezza è affidata solo alla redenzione della croce, il beneficio di Cristo vale più dei meriti, la grazia è superiore alla legge, la fede vale più delle opere?

12.

Alla fine degli anni quaranta del ‘500 si registra il passaggio da una fase caratterizzata da disponibili aperture verso i molteplici messaggi religiosi e da dibattiti e confronti ad una in cui le prime definizioni tridentine e i primi successi di una strategia repressiva restringono progressivamente e infine chiudono ogni margine di libertà. Anche a Venezia si istaura un clima diverso dove si registra una stretta che riduce spazi d’azione, insinua dubbi, provoca timori e ripiegamenti, impone scelte difficili, tra fughe e condanne, tra tenaci fedeltà e precari opportunismi.

Questa svolta apre dolorose contraddizioni in molte coscienze, tra cui anche quella del Lotto, come sembra testimoniare il ritratto di Fra Gregorio Belo da Vicenza, oggi al Metropolitan Musem di New York, eremitano dell’ordine di San Girolamo. Lo sguardo al tempo stesso dolce e severo è rivolto direttamente allo spettatore e lo coinvolge direttamente nella sua ardua esperienza spirituale, mentre la mano destra percuote il petto in segno di pentimento e la sinistra impugna un elegante libretto con le Homilie di san Gregorio Magno. La luce di una pallida aurora illumina le mani e il volto baffuto del frate, ma anche i vividi colori di una crocifissione visionaria, come a sottolineare i tormenti interiori di Gregorio Belo come quelli del Lotto.

Quando Pietro Aretino, con la perfidia di cui è capace, sottolinea il fallimento nell’arte del dipingere di Lorenzo Lotto pari al suo primato “ne l’offizio della religione” accelera sicuramente la decisione dell’artista veneziano di abbandonare una volta per tutte la sua città. Il modesto successo artistico incontrato a Venezia, dove in venticinque anni ha raccolto la commessa di sole quattro pale d’altare è una ferita aperta, a cui si aggiungono tensioni e polemiche connesse all’insediamento nell’ospedale di San Giovanni e Paolo dei barnabiti milanesi, prigionieri di una identità spirituale chiusa e totalizzante e alla molteplicità di esperienze religiose vissute tra le mura di quell’istituzione cartitatevole. Il 1549 è anche l’anno in cui vengono formulate le prime accuse di eresia contro l’amico Bartolomeo Carpan, a conferma dei sospetti che cominciano ad appuntarsi di quel piccolo gruppo eterodosso radicato nell’ambiente dei gioiellieri.

13.

L’approdo di Lorenzo Lotto a Loreto nel 1552 e l’atto di oblazione perpetua del 1554 sono un segno certo di una sua obbediente accettazione della fede cattolica, anche perché il culto della Santa Casa è in quegli anni denunciato, in ambienti eterodossi, come idolatria e superstizione. Se nel 1549 l’allontanamento volontario da Venezia si configura come una sorta di prudenziale fuga preventiva, all’inizio degli anni cinquanta la sua tormentata identità religiosa conosce una crisi destinata a maturare in breve tempo con una pacificante e piena accettazione della Chiesa di Roma.     

Quando papa Giulio III emana nel 1550 il decreto di assoluzione per quanti avessero abiurato entro tre mesi Lorenzo Lotto vive nel convento anconetano di San Francesco alle Scale, sede della locale Inquisizione ed è l’occasione per prendere le distanze da un mondo e trovare alla fine una quiete esistenziale e artistica.

Ormai il Lotto è vecchio e malato, sempre bisognoso di prestiti, costretto a svendere i suoi quadri e talvolta a dare in pegno i suoi amati gioielli e la sottoscrizione dell’atto di oblazione perpetua alla Santa Casa gli permette, grazie all’intermediazione del protonotario apostolico Gaspare Dotti, governatore del Santuario, di ritrovare una committenza di qualche rango sociale e, soprattutto, vitto, alloggio e denaro per sé e un servitore, l’ assistenza in ogni evenienza, uno stipendio di un fiorino al mese e la carica di pittore della Santa Casa. Da allora, fino alla morte, avvenuta tra l’estate del 1556 e quella del 1557, Lorenzo Lotto partecipa regolarmente alla vita religiosa della comunità, dedicandosi a dipingere non solo quadri per la chiesa ma anche apparati decorativi non religiosi. Con questa umile sottomissione Lorenzo Lotto, ormai oscuro pittore, vecchio, malato e abbandonato da tutti, chiude una esistenza che appare segnata dalle sue opere, prodotte in un contesto storico difficile e contrastato, condizionato dalla questione iconoclasta sollevata dalla Riforma, in particolare dalla sua accezione calvinista. Artista del suo tempo, deve fronteggiare il problema di natura dottrinale sulla liceità delle immagini sacre, sulla destinazione e fruizione sociale della pittura religiosa. Si misura con le inquietudini, i conflitti, i processi di ridefinizione teologica e istituzionale di quel periodo ed è costretto a sorvegliare con prudenza e con grande tormento interiore la sua produzione figurativa. La sua tormentata esistenza finisce così con l’apparire una sorta di emblematico paradigma della crisi religiosa del Cinquecento, mentre nelle sue opere rimangono poche e tenui tracce di quelle incertezze e di quelle contraddizioni.

(1° aprile 2019)

Fonti:

Anna Banti, Rivelazione di Lorenzo Lotto, Firenze, Sansoni, 1981

Massimo Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2011

Mauro Zanchi, Lotto I simboli, Firenze-Milano, Giunti, 2011

Philippe Daverio, Guardar lontano Veder vicino Esercizi di curiosità e storie dell’arte, Milano, Rizzoli, 2013

Ottavia Niccoli, La Marca di Lorenzo Lotto, un inquadramento storico in Enrico Maria Dal Pozzolo (a cura di), Lorenzo Lotto Il richiamo delle Marche Luoghi, tempi e persone, Milano, Skira, 2018

La storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio, Il Cinquecento tra Giorgione, Tiziano e Correggio, vol. 7, Milano, RCS MediaGroup, 2019


[1] Agiato avvocato veneziano, per qualche tempo “Guardian Grande” della Scuola di San Marco, a cui furono ascritti anche gli editori Lucantonio e Gian Maria Giunti. Il Lotto abita nella casa del nipote dai primi di luglio del 1540 alla fine di agosto 1542, quando si trasferisce a Treviso.

[2] Nel 1559-60 , allora sessantaseienne, è denunciato al Sant’Uffizio per pratiche antireligiose, su istigazione del secondo marito della figlia Armana, più per il sordo risentimento della figlia e del genero per questioni familiari  che per dimostrate pratiche eretiche dell’Arman.

[3] Il nome di Bartolomeo Carpan compare per la prima volta negli archivi del Sant’Ufficio in un biglietto databile 1548 e successivamente è chiamato in causa da varie testimonianze e poi da denunce specifiche nei suoi confronti, fino ad una sua convocazione formale nel 1569, per rispondere dei suoi rapporti con l’eretico veneziano Lauro Orso e di un traffico clandestino di libri eretici e alla conseguente carcerazione poi trasformata in arresti domiciliari. Condannato ad abiurare e a partecipare sistematicamente a pratiche religiose ortodosse Bartolomeo Carpan muore poco dopo, e non può più rispondere di una nuova e grave denuncia del 1571. 

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