Arte e Chiesa Ortodossa

1.

Le formule iconografiche bizantine sono codificate in modo rigoroso da Dionigi Da Furna, un monaco pittore del XVI secolo, che formalizza una tradizione secolare in un dogma iconografico. Così vengono regolati barbe e attributi di santi, martiri e profeti, ma si legittima la rappresentazione anche di saggi pagani del mondo greco, perché la Chiesa Ortodossa glorifica non solo il miracolo cristiano rivelato dagli evangelisti, ma anche la parte avuta nel cristianesimo dal pensiero e dalla disciplina dei filosofi pagani greci, riconoscendo che l’evolversi del cristianesimo in un sistema logico millenario è opera della cultura classica greca.

La pittura religiosa postprimitiva in Occidente è basata sull’orrore, sul fascino fisico, sull’adorazione dell’infante, sul pianto facile. In Oriente la Vergine Maria detta Panagia (Tutta Santa) è calma, ieratica, irreale, ha occhi grandi e asciutti; anche ai piedi della croce è piena di riserbo; il Santo Bambino è astratto e ultraterreno e il suo è lo sguardo saggio di un adulto; il Cristo Crocifisso, nonostante l’aspetto emaciato (segno immutabile della santità), ha lo stesso carattere ultramondano e la sua presenza nel culto ortodosso è molto più rara che in Occidente; Gesù è di solito rappresentato seduto in trono, circonfuso di splendore mentre veglia, grave e trionfale, sull’umanità; il Dio Pantocratore, inespressivo, impersonale e divino, non espone le ferite ma, impassibile, distaccato e augusto, si libra in una atmosfera ferma e incantata.

Il pacato messaggio delle figure dipinte e a mosaico non è né sensuale né emotivo, perché vuole essere un messaggio spirituale e intellettuale, a cui concorrono il simbolismo della pittura religiosa e l’arcano splendore della liturgia. 

2.

Con l’insediamento dei turchi a Costantinopoli nel 1453 e l’occupazione di tutte le terre greche il pensiero e la pittura spirituale diventano un lusso e il compito del clero e dei pittori di icone diviene non il progresso o la creazione, ma la pura conservazione. Con la dispersione del clero e lo zittirsi delle campane, sostituite dal richiamo dei muezzin dai minareti, il Pantocratore si ritira nel suo zenit dorato, diventando ancora più inaccessibile. La religione e l’arte religiosa, già ristrette da regole rigorose, diventano inflessibili, provocando un ristagno in campo religioso e in quello artistico la ripetizione senza fine e in ultimo la degenerazione. L’iconografia rimane intellettuale, elevata e remota, ma la cultura si inaridisce e con essa la capacità di capire gli astrusi messaggi impliciti nell’arte bizantina. La conseguenza è un formalismo assoluto e incomprensibile. Le forme diventano ancora più auguste e più venerabili, emblema della gloria perduta e segno della continuità nazionale e la religione, non più veicolo dell’etica cristiana, acquista sacralità come sola garanzia di sopravvivenza. Le osservanze esteriori, la liturgia, alcuni sacramenti, le prostrazioni, i digiuni severi, i frequenti segni di croce, le grandi feste della Chiesa, diventano rigidi e talismatici. Pochi gesti, privati e pubblici, sono interamente secolari.

3.

Il formalismo e l’austerità della pittura iconica bizantina è originariamente una conseguenza della distruzione in massa delle effigi religiose promossa dall’imperatore iconoclasta Leone III Isaurico nel 727. E’ una reazione puritana, antimonastica dei greci del’Asia a fronte del rifiuto ebraico e islamico di ogni simulacro delle fattezze umane e divine. Le icone vengono di nuovo rilegittimate nell’842 dall’imperatrice Teodora. Tutto ciò legittima nell’iconografia una tendenza purificatrice e spiritualizzante, che comporta la scomparsa dell’arte ellenistica, materialista, carnosa e languida, che si era espressa nella freschezza e nel vivido splendore dei primi mosaici bizantini. L’austerità di mosaici, di affreschi e di pergamene miniate è comunque temperata da dettagli decorativi persiani e arabi che rappresentano fiori, fontane, pavoni, tessuti orientali.

4.  

Nel tardo Medioevo era maturata una tendenza opposta alla rigidezza bizantina, un allentamento delle severe regole iconografiche, un accompagnamento dell’idioma austero e cerebrale con un appello alle emozioni. Questa possibile rinascenza seguiva la riconquista greca di Costantinopoli nel 1261, dopo il sessantennio dell’Impero Latino successivo alla Quarta Crociata ed era fiorito nel tardo XIII e XIV secolo, durante la dinastia dei Paleologhi. Nel mosaico nella chiesa di San Salvatore in Chora compare una fluidità di movimento e una scioltezza delle austere posture regolamentari piene di tenerezza e di pietà umani. E’ una tendenza “patetica” che si ritrova anche negli affreschi dell’esonarcete occidentale di Dafni, ma questo risveglio di nuova vitalità nell’antica compagine bizantina è destinato a spegnersi molto presto.

Ha il tempo però, alla vigilia del crollo dell’Impero, di produrre a Mistràs, in Grecia, sul fianco roccioso di un contrafforte del monte Taigeto, nuovi e più arditi accostamenti e intrecci di colore, umanizzando divinità, angeli, santi e mortali senza svuotarli della loro spiritualità. Sulle impalcature di una chiesa nuova dopo l’altra i pittori mescolano il gesso e il cinabro e il tuorlo d’uovo e il croco e lo zinco in polvere e tracciano le pieghe dei drappeggi e la circonferenza delle aureole. Le figure dipinte esaltano lo spettatore, lo toccano e lo commuovono e sono contemporanee al primo quattrocento toscano e umbro. A poca distanza, sul relitto dell’antica Sparta, comincia il feudalesimo franco e più a nord, le soldatesche di Muràd II e di Bayazid il Fulmine, con la treccia a codino e il cranio rapato sotto i turbanti a zucca, devastano e soggiogano la Grecia.

5.

I pittori greci di icone scelgono, rispetto a tutta l’arte cristiana, la strada più difficile nel raffigurare le forme esteriori di esseri sacri, cercando di accedere allo spirito non per le facili vie della passione, ma tramite l’intelletto. Religione e filosofia sono in loro inestricabilmente intrecciate come nelle età precristiane e ciò grazie alla stessa indole filosofica che aveva salvato il cristianesimo giudaico rendendolo greco, quindi universale. Abituati al maneggio delle astrazioni, consapevoli dell’impossibilità di indicare in termini visibili il mistero insondabile della Divinità, cercano di rendere assimilabile l’incarnazione di Cristo attraverso la mente e lo spirito, per arrivare al Dio trascendente e alla sua vera essenza, mentre l’Occidente dipinge e scolpisce Dio come uomo. Non conoscendo le altezze spirituali e intellettuali dell’Oriente, l’Occidente diventa romano, razionalista e materialista e fa appello iconograficamente ad un laicato alieno da esaltazioni mediante la passione, la fallibilità e i sentimenti facilmente condivisibili della maternità e del dolore. L’elemento patetico, anche se totalmente estraneo al cristianesimo nordico e giudaico, è facilmente intellegibile grazie a semplici formule latine e mantiene così una salda presa sull’immaginario collettivo di grandi masse.

L’iconografia greca, sopravvissuta negli sparsi regni in declino lasciati dalle conquiste di Alessandro Magno, successivamente si immobilizza e poi si dilegua. Gli antichi significati perdono di senso e il simbolismo religioso, acquistando un potere talismanico suo proprio, assume nuovi connotati, per rimanere come araldica, recondita e arcaizzante. 

(23 maggio 2019)

Fonti:

Patrick Leigh Fermor, Mani Viaggi nel Peloponneso, Milano, Adelphi, 2004

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