Esiste una quota della
popolazione italiana, una minoranza anche se consistente, che vive del proprio
lavoro, o dispone, grazie al lavoro svolto, di una pensione più che dignitosa,
una minoranza integrata socialmente, con affetti riconosciuti e riconoscibili,
acculturata quel tanto che basta per essere informata su come e dove va il
mondo, politicamente progressista e liberal, che non capisce la rabbia che
pervade gran parte della società. Non sa capacitarsi di comportamenti di massa
irrazionali e violenti, apertamente digressivi se non eversivi, di aperte
violazioni di regole ritenute universali e intoccabili. Nei migliori dei casi
viene chiamata in causa la mancanza di lavoro, l’assenza di prospettive di
inserimento sociale e conseguentemente di emarginazione e di perdita di senso
della vita stessa.
Comunque sono ritenuti intollerabili comportamenti di rivolta, anche perché non
connotati politicamente, nel senso di poter essere decodificati con categorie
che si riferivano ad una conflittualità apertamente di classe, dove le classi
sociali non erano ancora disgregate ed atomizzate.
Questa incomprensione assume spesso i connotati di un conflitto generazionale,
perché sono i giovani ad essere imputati di essere i rivoltosi, i violenti, i
dissacratori, nonostante che questa categoria si sia dilatata, comprendendo da
una parte quelli che erano definiti giovanissimi, dall’altra i cosiddetti
giovani adulti.
La cosa che appare ancora più incomprensibile è che la rabbia esprime non la
denuncia, più o meno palese, di essere emarginati dai poteri e dai saperi, vere
conquiste sociali nel passato anche recente, ma dai consumi. Eppure il
consumismo, nelle sue forme più varie, è oggi l’elemento fondante della società
contemporanea, l’essere cittadino non si misura più con la partecipazione alla
vita politica o con l’acculturazione, ma con il proprio potere d’acquisto e con
la possibilità di accedere al maggior numero di merci. Non è un caso che il
diritto di cittadinanza sia oggi inteso come un reddito elargito dallo stato e
non come la possibilità di disporre in forma accessibile e universale di
servizi e prestazioni sociali.
Ma chi è garantito, non lo è solo nel reddito o nella padronanza dei linguaggi,
ma anche, e soprattutto, nell’accessibilità ai consumi.
Da qui l’incomprensione, ma anche la critica, anche feroce, se non il dileggio,
nei confronti di comportamenti che sono condizionati, se non indotti, dalla
cultura dominante.
La critica diventa spietata, quando la rabbia sociale viene cavalcata, se non
incoraggiata, da forze politiche tradizionalmente favorevoli ai garantiti,
storicamente ostili a contrapposizioni sociali, fautrici di ordine e legalità.
Simmetricamente, avere un reddito certo, disporre di mezzi economici e
culturali, padroneggiare linguaggi, essere politicamente corretti, diventano
elementi negativi, distintivi di una casta di privilegiati, da combattere ed
eliminare.
Ma i garantiti sono i veri conservatori, i nemici del cambiamento, ostili ad
ogni rinnovamento? O quelle garanzie di cui godono vanno estese a tutti i
gruppi e ceti sociali, forse in un’altra società, più giusta e solidale, da
immaginare ora, a partire dalla rabbia degli emarginati e degli esclusi.
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