Come era possibile che dopo pochissimi mesi una
massa di consumatori incalliti si trasformasse in una comunità di cittadini
consapevoli e responsabili? Come era possibile che in poche settimane, dopo
aver interiorizzato per anni un senso di onnipotenza, per un effimero controllo
del presente grazie più all’apparire che all’essere, si potesse auspicare un
futuro fatto di limiti e incertezze, in coerenza con la nuova sensazione della
propria fragilità e debolezza? Come era possibile che fosse accettato non un
cambiamento di senso, di atteggiamenti e di comportamenti, ma solo un semplice
ritorno alla normalità, concepita come il ritorno allo status quo precedente
alla pandemia del coronavirus?
Dopo la sbornia nazionalista e la retorica sulle virtù nostrane, dopo i
tricolori alle finestre e i canti dai balconi, dopo gli auspici tipo “ce la
faremo” e “tutto andrà bene”, dopo gli esorcismi camuffati da presidi sanitari,
con l’allentarsi dell’emergenza per i contagi ridotti di numero e letalità,
riesplodono gli assembramenti di massa, la socialità consumistica, le
frequentazioni rituali, in esplicito
dissenso con le raccomandazioni di tecnici e scienziati, visti come
rompiscatole e menagrami.
Si dirà che tutto questo è opera di una minoranza gaudente, di ceti giovanili
spensierati, di personalità improvvide e incoscienti, mentre la maggioranza
degli italiani è seria e prudente, rinserrata in casa, mascherata e
distanziata. Senza considerare che questa maggioranza è fatta anch’essa di
consumatori e di produttori di beni di consumo, di viaggiatori per svago o
lavoro, di fruitori attivi o passivi di una socialità diffusa, che mal sopporta
limiti e restrizioni, e li rispetta più per paura (del contagio, dei controlli,
delle sanzioni) che per convincimento e tollera, se non incoraggia, le
trasgressioni di figli e nipoti.
Eppure si dovrebbe fare di necessità virtù. Si dovrebbe approfittare di questa
tragica opportunità per cambiare non solo gli stili di vita individuali, ma gli
assetti economici, i rapporti tra pubblico e privato, la distribuzione della
ricchezza, il trattamento che viene riservato all’ambiente.
Si legge che il Rinascimento italiano quattrocentesco abbia trovato la sua
origine nell’allargamento degli orizzonti intellettuali in Italia centrale a partire
dal Trecento, che fa seguito alla ricostruzione sociale causata dalla
catastrofe umana e demografica della grande epidemia di peste nera tra il 1347
e il 1352. Sembra che in Italia sia
iniziata la rinascita dell’economia, si cominci a svilupparsi la libera
concorrenza in contrasto con la struttura corporativa del Medioevo e sia nata
la prima organizzazione bancaria ed è in Italia, prima che altrove, si sia
emancipata la borghesia urbana.
La ricchezza si accumula nelle terre italiche, sia per
l’intraprendenza delle sue genti, sia per la debolezza dello scacchiere
europeo, dove nessuna potenza sembra ancora affermarsi.
Il Rinascimento accelera e intensifica il processo di sviluppo dell’economia e
della società medievale, contribuendo con un forte accento razionalistico, che
sarà poi predominante nella vita intellettuale e materiale. Tutta l’evoluzione
artistica si inserisce nel generale processo razionalizzatore, che anima
l’organizzazione del lavoro, la tecnica commerciale e bancaria, i metodi di governo,
la diplomazia e la strategia politica.
Basterebbe che una piccola parte di questa visione, al netto di
contestualizzazioni e di aggiustamenti storici, fosse patrimonio politico e
programmatico se non di un intero popolo ma almeno di una minoranza, al governo
e anche all’opposizione. Si potrebbero così derubricare ad epifenomeni e a
contingenti opportunismi i conflitti che caratterizzano il Conte bis al suo
interno e le schermaglie e i distinguo nell’opposizione a questo governo.
Commenta per primo