Mai, come in questi giorni, si avverte la drammaticità e lo sconcerto per il fallimento del cosiddetto “socialismo reale”. Alla disperata ricerca di un modello di cambiamento che metta in discussione il neoliberismo capitalistico, non si può fare ricorso alla socializzazione dei mezzi di produzione e alla collettivizzazione dei processi produttivi, come in Unione Sovietica e nei paesi a regime comunista, vista la loro implosione e il rigetto di massa di tali soluzioni, anche perché non accompagnate dalla socializzazione dei poteri e dei saperi. Sconcertano inoltre la assoluta mancanza di anticorpi nel tessuto sociale di quei paesi contro rigurgiti di individualismo esasperato e di ottuso nazionalismo.
Una fase della storia contemporanea sembra essersi chiusa in modo definitivo, sancendo anche la fine di un modello alternativo a quello capitalistico. Quello che rimane di questo sistema, anche in grandi realtà come la Cina, non appare alternativo né diverso, ma ripropone in forme statalizzate processi produttivi e finanziari legate al profitto, nonché meccanismi decisionali e partecipativi oligarchici e burocratici.
E’ sufficiente invocare la green economy, la massima trasparenza nei processi decisionali, l’efficientizzazione dello Stato, lo snellimento della burocrazia, una maggiore distribuzione della ricchezza? Queste soluzioni in quale progetto di cambiamento si inseriscono, quali ribaltamenti di forze e di poteri pretendono, quali protagonisti individuano? La frantumazione sociale di classi e ceti subalterni, la globalizzazione dei mercati, lo sfruttamento delle risorse umane e materiali, le disuguaglianze crescenti, la reversibilità di conquiste nel campo dei diritti e delle opportunità può essere messo in discussione? Ma da chi e per cosa?
Chi rimane orfano in modo improvviso e imprevedibile (almeno sul piano soggettivo) si pone inizialmente e ossessivamente delle domande, ma lo scorrere della vita gli impone scelte e comportamenti, anche perché sono molti gli ostacoli e le difficoltà da superare e la nostalgia è un sentimento nobilissimo ma improduttivo.
Chi è orfano della Rivoluzione d’Ottobre deve porsi domande legittime sul perché non ha cambiato il mondo e valutare se questo fosse prevedibile e se l’applicazione delle teorie marxiste sia stata fatta in modo corretto e coerente. Ma non basta.
La drammaticità dell’oggi, fatta di pandemie, di guerre, di sconvolgimenti sociali, di impoverimento morale e materiale, impone altre domande.
A tutte si deve rispondere.
Tutto giusto, Marcello. Ma siamo in una fase di asfissia culturale che non permette l’individuazione di un nuovo orizzonte ideale, purtroppo. Dobbiamo farcene una ragione, e in mancanza di idee nuove possiamo, in questa fase, soltanto portare correttivi e attrezzarci con resilienza…( al di là dell’abuso del termine, ormai inflazionato…).
Buon Primo Maggio.
mauro
Caro Marcello, tutto giusto, o meglio quasi. Nel senso che sarei più cauto nel dire che la Rivoluzione d’Ottobre non avrebbe cambiato niente, ovvero non sarebbe servita a niente. Al contrario quel grandioso avvenimento quei “10 giorni che sconvolsero il mondo” (John Reed) modificarono positivamente gli equilibri mondiali, misero in moto milioni di persone, dettero fiato a lotte anticolonialiste imponenti, a conquiste, anche in Europa, di cui ancora oggi, sempre più faticosamente, godiamo; costrinse insomma il capitalismo, se si può dire, ad ‘umanizzarsi’ ed a mettere in campo risposte “socialdemocratiche” di grande livello per spegnere la voglia di rivoluzione radicale… Il fatto che poi quelle conquiste ce le stiano riprendendo quasi del tutto perché, in poche parole, ‘fummo sconfitti’ (e i motivi, i modi e il come sarebbe troppo lungo da dire, e non ne sarei capace) è un altro discorso. Il procedere della storia non è – non è mai stato- rettilineo.