Qualcuno si compiace di questo silenzio urbano, del
rallentamento del muoversi, del rarefarsi degli scambi. Ipotizza vantaggi per
l’ambiente, il recupero di ritmi biologici perduti, la messa in discussione
irreversibile di ritmi e tempi di vita. Sarebbe vero se tutto si concretizzasse
in obiettivi prefiguranti, frutto di una diversa idea di società, di una
visione alternativa di sviluppo, di uno sforzo pieno di soggettività e di
protagonismo. Non la reazione passiva e rassegnata ad un evento sconosciuto e inconoscibile,
l’adeguarsi a direttive che appaiono come uniche e possibili, il conformarsi a
una disciplina considerata salvifica e miracolosa.
Non sembra emergere una alternativa a uno stato di cose esistenti, che ha
prodotto, produce e produrrà epidemie, come ha prodotto, produce e produrrà
disuguaglianze e disparità, che si intrecciano in un mix micidiale,
potenziandosi a vicenda.
La possibile scomparsa di interi settori manifatturieri, l’innalzarsi di nuovo
di barriere e confini, la perdita del controllo sociale di comportamenti ed
atteggiamenti individuali e collettivi, a favore di un “grande fratello”
pervicace e intrusivo, la percezione della socialità come pericolo e minaccia,
non sembrano allertare chi produce e vive di allarmismo, perché è ormai convinzione
diffusa che questo sia l’unico mondo possibile.
Scomparsa dall’orizzonte ogni idea di società alternativa, di un modo diverso
di produrre e di consumare, viene meno anche la pratica di un conflitto e della
mediazione necessaria, almeno a consolidare posizioni e ad assestarsi in
casamatte difendibili.
Non è vero che siamo tutti sulla stessa barca, come non è vero che siamo tutti
uguali, resi tali da un virus che non guarda in faccia nessuno. E’ vero invece
che il virus colpisce chi è più debole, chi è più fragile e chi non ha la
protezione di un welfare efficiente.
Che sarebbe successo se noi italiani non avessimo avuto un Servizio Sanitario
Nazionale, una rete di servizi universale e retta dalla fiscalità generale,
anche se penalizzato da processi di aziendalizzazione e privatizzazione e
falcidiato da tagli finanziari e organizzativi? Avremmo retto e vinto
l’emergenza coronavirus con le sole misure di distanziamento sociale senza
l’impegno e l’abnegazione di un personale sanitario pubblico, motivato e
meritevole?
Il Servizio Sanitario Nazionale è stato ed è una casamatta, una posizione
avanzata, un presidio non solo sanitario, ma sociale e politico e anche
simbolico. Non è un caso che sia stato oggetto di riforme e controriforme, di
tagli e decurtazioni, di attacchi e denigrazioni.
Nel dopovirus da lì si deve ripartire. Ne guadagnerà la salute pubblica, ma anche l’occupazione, l’economia, il Pil.
Caro Marcello, condivido pienamente questa analisi che, se permetti, diffondero’ai miei contatti come ho fatto con il tuo libro. A presto.
Bel pezzo, Marcello, complimenti. Le lezioni di Gramsci sono sempre attuali…
mauro
Ragionamento impeccabile Marcello. Grazie.
Grazie, ci porti a pensare sul bene comune. Siamo davvero fortunati ad avere un Servizio Sanitario Nazionale. Questa esperienza che stiamo vivendo spero ci spinga a proteggerlo con molta forza e determinazione. Dovremo imparare tante cose dall’io e del noi. La speranza la tengo stretta. Grazie per le tue parole riflessive e sagge.
Marcello la lucidità delle tue argomentazioni impone a chiunque faccia funzionare il cervello di diffondere questi strumenti di resistenza per il futuro che non si annuncia particolarmente rassicurante. Ho rilanciato su fb “La casamatta”, un termine che evoca atmosfere di guerra…chissà se da queste parti del pianeta saremo così fortunati da evitare, almeno, la sofferenza immane dell’esplosivo che martirizza le persone innocenti? Andrea Chioini
Il tuo “Archivio” una cassetta degli attrezzi più utile che mai. Ciao, jc
ps. Forse riparte il mio blog Pigramano-Gudmorninitali, se hai voglia e occasione…