In Italia si cominciano a stimare i danni dell’infezione
da coronavirus.
Prima i danni sulla salute e si contano i morti, i contagiati, i guariti, i
ricoverati. Poi i danni economici stimando il calo del Pil, il crollo degli
scambi commerciali, il forte ridimensionamento dei consumi, le perdite di posti
di lavoro.
Pochi sembrano preoccuparsi dei danni sociali.
Eppure le conseguenze sulla socialità sono devastanti. Non solo nelle zone
cosiddette “rosse”, ma in quasi tutta Italia si assiste ad una rarefazione
degli scambi umani, dei contatti interpersonali, ad una vera desertificazione
che sta interessando i luoghi della socialità, quali i ristoranti, i bar, le
caffetterie, i cinema, i teatri, le palestre, nonché gli spazi urbani aperti.
E’ transitata la parole d’ordine del “distanziamento sociale”, che viene
applicato alla lettera, con una regressione della vita collettiva e con
l’affermarsi di forme di isolamento individuale, di autoesclusione casalinga,
di familismo obbligato.
Qualcuno considera l’infezione una sorta di palingenesi, da cui sarà possibile
uscire più fortificati, sperimentando forme nuove di lavoro e di apprendimento.
Così si assiste all’ esaltazione dello “smart working”, forma raffinatissima di
sfruttamento, non sottoposto a nessun controllo sociale, svincolato da obblighi
contrattuali, trascurando che con i lavori da casa diventerà assoluta la
dipendenza informatica, esaltando i rapporti indiretti e mediati, a scapito di
quelli diretti e immediati, chiudendo altresì terminali e agenzie di prossimità.
Così a scuole e università chiuse ci si compiace dell’insegnamento a distanza,
che sarà inevitabilmente nozionistico e informativo, senza più la mediazione
umana e “appassionata” del docente, negando nei fatti la scuola come comunità
educante.
Il proprio domicilio, da riparo si trasforma fino in fondo a rifugio, spazio
protetto dalle minacce esterne, per ora virali poi di genere e di specie, luogo
unico ed esclusivo di socialità possibile, l’unica dimensione accettata e
accettabile contro un esterno infetto, pericoloso, minaccioso.
L’individualismo trova nell’infezione da coronavirus l’occasione per affermarsi
ancora di più, esaltandosi anche come una forma di solidarietà nei confronti
degli altri, vissuti come altri individui, da cui tenersi però distanti,
misurando in centimetri la propria dimensione politica, sperando di scamparla,
almeno fino alla prossima infezione.
Il quadro che dipingi è troppo desolante, forse più che un quadro è un avvertimento, facciamo passare questo strano e inquietante momento, cerchiamo di imparare quanto più possibile su tutti i fronti, scientifici, sociali ed economici, forse per cambiare qualcosa, ma per ridimensionare il nostro vivere, privilegiare altro…
Condivido in pieno la tua analisi, spero di aver modo di parlarne di persona presto, vorrebbe dire che l’emergenza è cessata
sono molto d’accordo sulla critica allo smart working, credo si tratti di una operazione con una forte valenza politica, presentata come un gran progresso sociale mentre si tratta proprio di una pazzesca frammentazione sociale, sostenuta da una grande distorsione cognitiva da parte delle vittime inconsapevoli (per esempio nelle scuole). E’ la negazione dei corpi,la negazione della realtà, cioè la neutralizzazione dei corpi e della realtà