6 marzo 2020 Il distanziamento sociale

In Italia si cominciano a stimare i danni dell’infezione da coronavirus.
Prima i danni sulla salute e si contano i morti, i contagiati, i guariti, i ricoverati. Poi i danni economici stimando il calo del Pil, il crollo degli scambi commerciali, il forte ridimensionamento dei consumi, le perdite di posti di lavoro.
Pochi sembrano preoccuparsi dei danni sociali.
Eppure le conseguenze sulla socialità sono devastanti. Non solo nelle zone cosiddette “rosse”, ma in quasi tutta Italia si assiste ad una rarefazione degli scambi umani, dei contatti interpersonali, ad una vera desertificazione che sta interessando i luoghi della socialità, quali i ristoranti, i bar, le caffetterie, i cinema, i teatri, le palestre, nonché gli spazi urbani aperti. E’ transitata la parole d’ordine del “distanziamento sociale”, che viene applicato alla lettera, con una regressione della vita collettiva e con l’affermarsi di forme di isolamento individuale, di autoesclusione casalinga, di familismo obbligato.
Qualcuno considera l’infezione una sorta di palingenesi, da cui sarà possibile uscire più fortificati, sperimentando forme nuove di lavoro e di apprendimento.
Così si assiste all’ esaltazione dello “smart working”, forma raffinatissima di sfruttamento, non sottoposto a nessun controllo sociale, svincolato da obblighi contrattuali, trascurando che con i lavori da casa diventerà assoluta la dipendenza informatica, esaltando i rapporti indiretti e mediati, a scapito di quelli diretti e immediati, chiudendo altresì terminali e agenzie di prossimità.
Così a scuole e università chiuse ci si compiace dell’insegnamento a distanza, che sarà inevitabilmente nozionistico e informativo, senza più la mediazione umana e “appassionata” del docente, negando nei fatti la scuola come comunità educante.
Il proprio domicilio, da riparo si trasforma fino in fondo a rifugio, spazio protetto dalle minacce esterne, per ora virali poi di genere e di specie, luogo unico ed esclusivo di socialità possibile, l’unica dimensione accettata e accettabile contro un esterno infetto, pericoloso, minaccioso. 
L’individualismo trova nell’infezione da coronavirus l’occasione per affermarsi ancora di più, esaltandosi anche come una forma di solidarietà nei confronti degli altri, vissuti come altri individui, da cui tenersi però distanti, misurando in centimetri la propria dimensione politica, sperando di scamparla, almeno fino alla prossima infezione.

3 Commenti

  1. Il quadro che dipingi è troppo desolante, forse più che un quadro è un avvertimento, facciamo passare questo strano e inquietante momento, cerchiamo di imparare quanto più possibile su tutti i fronti, scientifici, sociali ed economici, forse per cambiare qualcosa, ma per ridimensionare il nostro vivere, privilegiare altro…

  2. Condivido in pieno la tua analisi, spero di aver modo di parlarne di persona presto, vorrebbe dire che l’emergenza è cessata

  3. sono molto d’accordo sulla critica allo smart working, credo si tratti di una operazione con una forte valenza politica, presentata come un gran progresso sociale mentre si tratta proprio di una pazzesca frammentazione sociale, sostenuta da una grande distorsione cognitiva da parte delle vittime inconsapevoli (per esempio nelle scuole). E’ la negazione dei corpi,la negazione della realtà, cioè la neutralizzazione dei corpi e della realtà

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