Il vento
Un ventaccio di tramontana spazza via gli ultimi tepori dell’estate, ripulisce il cielo di nubi e foschia, desertifica nelle ore notturne vie e piazze di Tivoli. Eppure Largo Garibaldi nel tardo pomeriggio brulicava di bambini e bambine vocianti e in perenne movimento, come anche via del Trevio, piazza Plebiscito, via Palatina e via del Ponte Gregoriano ridondavano di residenti e turisti, risparmiati da un frenetico traffico veicolare, che assediava la città antica senza poterla conquistare.
Il freddo è tollerato solo fino a quando un tramonto di fuoco incendia la distesa di lava della Piana Pontina, facendo intravedere la lontanissima emergenza della Cupola di San Pietro e dello sky line dell’EUR, poi più niente, né gente né auto.
Eppure poche ore prima il sole picchiava nell’incredibile giardino della Villa d’Este e il vento si arrestava di fronte alle sale e saloni affrescati degli appartamenti Vecchio e Nobile e io e Anna Maria non pativamo neanche un refolo nel peregrinare stupiti tra una fontana e un gioco d’acqua, tra finte rovine e zampilli, protetti da alberi secolari e abbagliati dagli specchi delle tre Peschiere. Dal giardino più in basso il nostro sguardo era stato catturato dalla scenografia digradante delle balconate, mentre nelle orecchie c’era solo il rumore continuo dello scorrere dell’acqua, che sembrava l’unica sensazione fisica ammessa e possibile in quel luogo.
La sera il ristorante Viva l’Oste è quindi il rifugio necessario, dopo aver tentato un impossibile peregrinare urbano e ci ripaga con la gentilezza di chi ci serve e con un menù rivisitato ma genuino: saltimbocca alla romana con l’aggiunta di tartufo e filetto caramellato al miele, preceduti da tagliolini al cacio e pepe e tortino di melanzane con burrata.
Il costruito e il ricostruito
In Italia quasi tutto è stato costruito e ricostruito, distrutto e ridistrutto da terremoti e inondazioni, da guerre e bombardamenti, da speculazioni e incompetenze. Tivoli non fa eccezione, compresa la ferocia dell’ultimo conflitto mondiale, ma sembra anche l’aggressività della speculazione edilizia.
Se i bombardamenti alleati avevano distrutto palazzi e abitazioni di via Garibaldi, gli edifici che oggi insistono in quello spazio, a partire dal complesso razionalista del Convitto Nazionale dedicato a Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, sembrano denunciare un deficit di coerenza e razionalità. Neanche Arnaldo Pomodoro con la fontana “l’Arco dei Costituenti” riesce a nobilitare quello spazio e non ci riescono, ma neanche lo pretendono, gli enormi condomini che si affacciano, poco lontano sul viale Arnaldi e via Cassiano. Tutta la città moderna, quella che si percepisce da viale Trieste e che è innervata dal viale Mannelli, non rivela tentativi architettonici originali o innovativi. La stessa quattrocentesca Rocca Pia, anche se costrutto regolare e apparentemente ancora intatto, è come un corpo estraneo, più una quinta scenografica, che un elemento vivo e vitale per la città. Rimane la città antica con i suoi vicoli torti e contorti, il salire e il discendere di scalinate, i tanti palazzi rinascimentali, le case torri medievali ma si fatica a individuare una emergenza, un luogo dello stupore. Non ci riesce il palazzo municipale, nonostante l’antica origini delle sue fondamenta e delle strutture primitive e non ci riesce il Duomo, in cui le pretese barocche hanno coperto vestigia antichissime. Eppure al suo interno ci sono due gioielli: una deposizione lignea duecentesca, commovente e patetica e il trittico del Salvatore, dipinto su tavola del secolo XII. Ma andrebbero valorizzate, al di là del legittimo uso devozionale e non aiuta, in questo momento, il cantiere di restauro che coinvolge tutta la chiesa.
Alla fine un luogo magico si trova: è la profonda forra scavata dal fiume Aniene, attraversata dal ponte Gregoriano e su cui incombe, “maravigliosamente” l’Acropoli romana, con i templi di Vesta e della Sibilla, a pianta rotonda l’uno con un originalissimo peristilio di colonne corinzie e l’altro sobrio e solenne nella sua forma rettangolare su un basamento di travertino. In basso la forra è verdissima e selvaggia.
L’imperatore, il cardinale, il papa
Tivoli deve la sua notorietà a tre personaggi, così famosi al punto di oscurare i comprimari delle loro azioni, come se le tre ville tiburtine fossero un gesto magico, dovuto alla volontà individuale di un potente e non enormi sforzi collettivi, dove architetti, scultori, stuccatori, decoratori e migliaia di maestranze hanno contribuito a realizzare un progetto, sbancando, scavando, edificando, ristrutturando, trasformando un pezzo di natura o di cultura fatta natura e annullandosi in esse, molti sicuramente perdendo anche la vita. I segni rimasti su queste opere, i marchi che le connotano e le distinguono sono i nomi di Publio Elio Traiano Adriano imperatore romano, di Ippolito d’Este cardinale di Santa Romana Chiesa, di Bartolomeo Alberto Cappellari papa con il nome di Gregorio XVI. E’ in loro nome la denominazione dei siti ma anche dei toponimi e delle strutture, una esaltazione non solo della loro intelligenza e sensibilità, ma anche un riconoscimento della potenza di un dominio assoluto, che non aveva né voleva limiti e controparti.
Solo l’imperatore di un dominio sconfinato, con mezzi all’apparenza illimitati, poteva urbanizzare alcune centinaia di ettari in piena campagna, adattando il terreno e strutturandovi teatri, palazzi, porticati, templi, terme, piscine. Percorriamo un grande oliveto, frammisto a querce e cipressi centenari, dove molte rovine si ammirano dall’alto ma molte altre si è costretti a guardarle dal basso, schiacciati dalla loro imponenza architettonica e in molte si entra, le si frequenta, si oltrepassano soglie, si discendono e si salgono scale, si colgono luoghi appartati, illudendosi di partecipare ad una intimità che è sfumata, ormai impercettibile.
E solo un ricchissimo cardinale, progenie di gente di rango, chiamato dal papa a governare Tivoli, non poteva rassegnarsi a vivere in un convento benedettino, essendo lontano nelle aspirazioni e nella quotidianità dall’”Ora et Labora” del santo di Norcia, ma pretese una reggia, composta da appartamenti privati e da luoghi di rappresentanza, grandi spazi riccamente decorati, con affreschi che sono lezioni di dottrina religiosa, di mitologia, di morale e allegorie di arti e mestieri.
Una tale residenza pretendeva un grande giardino e, trovandosi sui fianchi di un colle, a stretto ridosso di case e chiese, trovò opportuno far terrazzare, piantumare ed abbellire di fontane il declivio naturale, trasformandolo in un originale e sontuoso giardino all’italiana e facendo arrivare l’acqua dall’Aniene, con una galleria sotterranea a Tivoli.
E’ un papa, nel suo ruolo non di massima autorità spirituale, ma di capo di stato, a commissionare nel 1832, in piena fase preindustriale, titanici lavori per imbrigliare le acque del fiume Aniene, causa di continue inondazioni con decine di vittime e grandi danni materiali. Due canali artificiali scavati nella roccia del Monte Catillo, deviarono le acque del fiume, salvaguardando la città da nuove catastrofi e trasformando l’habitat della Valle dell’Inferno, scavata nel travertino e con una grande cascata, bella e tumultuosa, meta di viaggi nel Grand Tour settecentesco e oggetto di ammirazione e di resoconti romantici. Le cascate ci sono ancora, anche se più contenute, le grotte non sono più abitate da divinità vaticinanti ed oracolanti, la vegetazione è quella rigogliosa e sempreverde non più di un bosco sacro ma di un parco, voluto sempre dal papa, e oggi salvaguardato dal FAI, che lo ha reso di nuovo fruibile, dopo anni di abbandono e incuria seguiti alle bombe della Seconda guerra mondiale.
Leggo solo ora questo tuo diario. Non potevo non commentarlo. Una bellissima fotografia di una città che conosco bene. Mi piacerebbe fare una passeggiata, insieme. Per farti prendere almeno un paio d’appunti. Sulle rovine del tempio d’Ercole, alle pendici della collina sotto le mure perimetrali della villa d’Este, verso Roma. Soprattutto, su Lucio Munazio Planco, generale con Cesare nelle Gallie e console romano. Rientrato da Alessandria informò Cesare Ottaviano del testamento di Marco Antonio, totalmente sbilanciato verso Cleopatra, creando il casus belli. Sempre Munazio Planco ha coniato il titolo di Augusto per il primo imperatore di Roma. Una figura sottovalutata pure a Tivoli, anche se c’è una via a lui dedicata che immette su Via Lione (Lugdunum fondata da Munazio Planco) che porta al Municipio.