Con queste parole si concludeva la lettera che da Arezzo inviò al Governo Provvisorio perugino il 17 giugno 1859 il colonnello Cerroti, di fatto ribadendo la necessità che la città si difendesse dalle truppe papaline, ma che dovesse contare unicamente sulle proprie forze.
Dello stesso coraggio c’è bisogno oggi, anche se la minaccia non è rappresentata da un nemico in armi alle porte della città, ma da un declino economico, sociale e culturale che da anni ormai coinvolge una massa critica di quasi duecentomila persone, che ha perso la sua identità di capoluogo regionale, di centro culturale di eccellenza, di distretto industriale di qualità.
Fino a ieri un cittadino perugino si sentiva di appartenere ad una comunità che nella sua stragrande maggioranza si identificava in almeno tre elementi che appartenevano alla sua realtà urbana ma anche al suo immaginario e alla sua dimensione simbolica: L’Università, La Perugina, Pietro Vannucci. Di queste tre realtà Perugia si sentiva forte, perché riguardavano non tanto un’ accademia, una fabbrica e un artista, ma un tessuto sociale ed economico in cui primeggiavano ben due università, l’Università degli Studi e l’Università per Stranieri, una prestigiosa Accademia di Belle Arti, un sistema completo e credibile di Licei ed Istituti di secondo grado, in grado di garantire formazione e ricerca, ma anche confronto ed emancipazione sociale, scambio di idee e di servizi, attrattività regionale ed extraregionale. La Perugina non era solo uno stabilimento industriale, ma un concentrato di grandi competenze e professionalità, perennemente sotto lo stimolo di ricerca e innovazione, con una gamma di prodotti di altissima qualità, che riguardavano l’intero settore dolciario e che era la punta più avanzata di una attività manifatturiera estesa e ramificata, fonte di profitti per pochi ma di reddito per molti. Pietro Vannucci, detto il Perugino, non era solo uno degli artisti più famosi e conosciuti del suo tempo, ma l’espressione più alta di un humus sociale e culturale, che hanno fatto di Perugia, anche dopo il Medio Evo, un luogo dove l’arte, nelle sue molteplici espressioni, ha condizionato il volto urbano della città ma anche l’animo e la sensibilità dei suoi abitanti.
Il declino di Perugia è cominciato quando hanno perso peso nella realtà e nell’immaginario questi tre elementi simbolici, ridimensionati nella loro capacità di produrre beni e servizi, ma anche cultura, travolti da logiche finanziarie, costretti a scelte produttivistiche quantitative e contingenti, piegati a scelte né condivise né condivisibili. Le Università, una malamente delocalizzata a livello regionale, con l’abbassamento della qualità della sua offerta didattica, trascinata in logiche imprenditoriali estranee e improvvisate, l’altra ridotta a semplice doppione della prima, riducendo le proprie specificità e competenze, hanno perso autorevolezza e attrattiva. La Perugina è ormai solo uno stabilimento di produzione di monoprodotti compatibili con un mercato globale vorace ed effimero. L’arte a Perugia è una ostentazione nostalgica di arredi e tesoretti, senza più lo stimolo della ricerca e dell’innovazione, un momento contemplativo, neanche critico, né tantomeno produttivo.
Eppure da lì bisogna ripartire. Con coraggio.
Dall’eccellenza universitaria, intesa come momento significativo di una economia di servizi, perché in grado di alimentare il circuito virtuoso dell’assistenza sociale e sanitaria, della tutela dei diritti tramite le professioni e i servizi, lo scambio e l’arricchimento sociale con l’acquisizione di meriti e competenze, le ricadute sulla qualità di vita con la ricerca e la sperimentazione.
Dal tessuto produttivo manifatturiero, a partire da quello che resta (e non è poco) del settore dolciario e della filiera alimentare, incoraggiando nuove imprenditorialità, facilitando il rinnovamento e la innovazione del distretto industriale perugino, fonte indispensabile di reddito per tutta la città.
Dall’arte, valorizzando i tesori esistenti (tanti), ma inserendola in un processo di riqualificazione urbana, che punti non più sull’espansione della città diffusa, ma che miri al riuso e all’utilizzo di quanto è edificato e non utilizzato, recuperando spazi e luoghi alla vita collettiva, alla residenza, alla dimensione sociale. Arte non tanto come competenza specialistica e come produzione parcellizzata, ma visione artistica complessiva per una ridefinizione di un’idea di città.
Forse allora Perugia sarà.
Perché mi domando, dopo essere nato e cresciuto a Monteluce, dopo aver vissuto per quattro anni a Porta Pesa a ridosso del centro, perché non mi manca Perugia adesso che sono lontano? O meglio, la mia città mi manca molto, non mi manca chi la vive e come viene vissuta, dalle più alte cariche fino all’ultimo cittadino. La Crisi secondo me è identitaria, dici che sei perugino e quasi te ne vergogni perché non c’è più nulla che ti unisca o riunisca nel nome dell’essere cittadino di una città che non ha più una sua precisa identità. I ragazzi non sanno più nulla della loro città, il perché di certi quartieri, la storia e lo sviluppo della comunità perugina, nemmeno i ragazzi “non più giovani” ormai quarantenni della mia generazione vogliono sapere molto e poco conoscono di Perugia, mi ci metto in mezzo anche io. L’esodo della mia generazione, con le nuove famiglie, i bambini, tutti spostati verso le periferie per i costi più contenuti, le comodità più a portata di mano, i servizi ormai tutti a disposizione, nessuno o pochissimi sono stimolati a rimanere in città ed io stesso posso confermare che dei tre anni vissuti a Deruta non ho nessun pentimento. Insomma, Perugia è la mia città, la adoro visceralmente, ma mi fa molto male passare nel mio quartiere la mattina di Pasqua e trovare il deserto quando nei miei ricordi c’erano persone a passeggio, bar e forni affollati per comprare le ultime ciaramicole, sorrisi e cordialità.
Approfitto per ringraziare ancora Marcello per offrirmi questo punto di contatto con Perugia, sto scrivendo da Reggio Emilia adesso.