5 marzo 2018 Il solitario nella torre

Molti quest’anno scrivono e parlano di Aldo Capitini, a cinquant’anni dalla morte. Studiosi per lo più, ma anche discepoli, allievi, amici. Ne viene un ritratto complesso, come complessa era la personalità di Capitini. Emergono le sue tante nature, quella di filosofo e poi quelle di militante politico, di religioso, di poeta, di pedagogo. Nessuna prevale sulle altre, perché è un personaggio che è impossibile etichettare, connotare a senso unico, liquidare o esaltare con una battuta o uno slogan. Eppure c’è una sintesi della sua personalità ed è nel titolo di un articolo pubblicato su L’Espresso, a firma di Geno Pampaloni: Il solitario nella torre.

Lo stesso Capitini si poneva domande sulla sua solitudine politica. [1] Denunciava a se stesso, più che agli altri, la sua insignificanza politica a partire dal 1944, nonostante il rifiuto della tessera del Pnf e la conseguente perdita del posto di segretario alla Normale di Pisa, il suo essere al centro di una cospirazione antifascista intransigente e autorevole, sempre mite e non violenta, ma irriducibile, l’aver proposto una riforma del sistema politico, tramite  il liberalsocialismo (“massime socializzazioni nel campo economico e massima libertà nel campo spirituale e culturale”), che si poneva l’obbiettivo di sostituire a uno Stato cattolico-borghese uno Stato intellettual-popolare, l’aver promosso uno dei più significativi tentativi di ricerca di forme nuove di democrazia diretta, i Centri di Orientamento Sociale (COS), e molto altro.

Il molto altro è l’essere stato guida e ispiratore di tanti giovani durante il fascismo e nell’Italia repubblicana,[2] di avere teorizzato il controllo dal basso e il potere di tutti, di aver lavorato per la nonviolenza, per l’obiezione di coscienza, per la pace, per il rifiuto totale della guerra, di praticare una religione aperta, una nuova dimensione religiosa, staccata da quella tradizionale.

Ma la solitudine è anche esistenziale, sin da giovane, dovuta ad uno studio intenso ed appassionato [3], che lo porta ad affiancare la frequentazione della Scuola Tecnica prima e dell’ Istituto tecnico per ragionieri poi con lo studio autodidatta della grammatica e della sintassi latina e greca e con la lettura di moltissimi testi classici e biblici. Fino a patirne nel fisico, esaurendo le risorse di un corpo gracile, tormentato dall’insonnia, umiliato dal ricorso alle medicine, diverso e lontano da un mondo che esalta altri valori e soddisfa altre aspettative.[4]

Il pensiero unico del fascismo, l’aspetto totalizzante dello stato mussoliniano, l’obbligo alla omologazione e al conformismo, l’impossibilità della critica e del dissenso,  rendono più acuta l’estraneità culturale e sociale di Capitini. Ormai gli amici si contano sulle dita di una mano, soprattutto dopo il rifiuto di prendere la tessera del Partito Nazionale Fascista e la sua espulsione dalla Normale di Pisa voluta da Giovanni Gentile.

La scelta vegetariana, il rifiuto di formarsi una propria famiglia, il non dichiararsi più cattolico, [5] aggiungono elementi di totale e radicale diversità.

La solitudine è pesante, non solo sul piano umano, ma su quello culturale e politico[6] [7], Ma questo non gli impedisce di avere un quadro di insieme, grazie all’acquisizione di alcuni principii generali, che coltiva con “pochi e intelligentissimi amici” a Perugia prima e poi in Italia, soprattutto a Firenze e a Roma. Qui l’elenco è invece lungo, coglie tutta l’intellighenzia italiana, quella non sottomessa né compiacente al regime o quella che non è in galera o in esilio, e quelle frequentazioni sono di stimolo, di arricchimento culturale, di sprovincializzazione e, molto probabilmente, di conforto ad una condizione esistenziale che appare comunque inappagata e inappagante.[8]

Nel 1937, l’anno della morte di Gramsci e dell’assassinio dei Rosselli, in piena controtendenza, Capitini scrive Elementi di una esperienza religiosa, apportando motivi nuovi, altri da quelli allora dominanti nell’ambiente antifascista, quando il fascismo sembrava trionfare e veniva accettato in Italia con generale passività: la non-violenza, la non-menzogna, la non-collaborazione. E’ un’altra scelta di alterità, che conferma la sua solitudine, in questo caso intellettuale e politica.[9] Ma in quello scritto c’è anche un manifesto politico dove alcuni passaggi sono addirittura profetici: il passaggio a larghe unità plurinazionali, la presa in mano collettivistica dell’economia da parte dei lavoratori di tutto il mondo, una federazione di popoli [10] [11]. E’ la premessa del liberalsocialismo. Di fatto sarà un “ambiente di ricerca e di scambio”, una incessante ricerca di collegamenti, specialmente con i giovani, alimentando la loro formazione ideologica con i libri disponibili e con dattiloscritti clandestini. Quello che interessa veramente a Capitini è la formazione di una coscienza, [12] mettendo in secondo piano la decisione violenta o la decisione non violenta. Ma il tema su cui Capitini molto si spende è la libertà, che per lui è un “ principio che debbo calare nella realtà, e come principio è permanente, universale” , fino al punto di individuarla come linea discriminante della sinistra antifascista in tutto il ventennio 1944-1964.[13] L’elaborazione del liberalsocialismo è strettamente integrata con l’attività antifascista e Capitini ne riesce a realizzare un tutt’uno, facendo dell’antifascismo non solo e tanto una testimonianza di alterità, quanto una prefigurazione di un diverso sistema politico, di una diversa entità statale, di una diversa idea di società. Ma non vuole forzature nei tempi e nei modi, difende il suo orientamento socialreligioso, privilegia le logiche di movimento rispetto a quelle di forza politica organizzata. [14] I due manifesti del liberalsocialismo, rispettivamente del 1940 e nel 1941, non hanno Capitini come redattore principale e lo vedono ai margini. E’ un collaboratore, quasi un simpatizzante, ed è ancora solo. Tant’è che non aderirà al Partito d’Azione, nonostante il contributo teorico e pratico di molti liberalsocialisti,[15] [16] ma paradossalmente la sua solitudine, soprattutto dopo i quattro mesi passati in carcere alle Murate di Firenze, gli permette di elaborare uno dei suoi concetti più profondi : la compresenza dei morti e dei viventi.[17]

E’ ormai in grado di elaborare un pensiero originale e organico, assolutamente indipendente, incentrato sui passaggio dall’io a tutti, che gli permette, di accettare, legittimare e sublimare la propria solitudine.[18]  Da allora, Liberazione compresa e avvento della Repubblica, per Capitini l’unica scelta possibile è fare in modo che quella resistenza aperta, non violenta, che non si era realizzata nel ventennio fascista, maturasse nel nuovo contesto istituzionale e politico, evitando accuratamente e ripetutamente responsabilità amministrative o legislative, mantenendo una attività politica incessante, riproponendo collegamenti, incontri, manifestazioni pubbliche, iniziative editoriali, in tutta Italia, ma con Perugia e l’Umbria al centro della sua vita, dei suoi affetti, del suo pensiero. Rimane fino alla fine un “solitario nella torre”, non quella “d’avorio” lontana da tutti e da tutti inaccessibile, ma quella, ormai metaforica, rappresentata dalla torre campanaria del Palazzo del Comune, di cui era custode il padre e dove aveva vissuto,in spazi ristretti, con tutta la sua famiglia e dove Capitini aveva una cameretta e uno studiolo, sufficiente per le meditazioni, gli incontri, le lezioni, anche perché da un finestrino lo sguardo spaziava sull’Umbria e gli garantiva quel quadro ampio, quel paesaggio sereno, meditativo, largo, che lui traduceva nell’insieme dell’etica, della poetica e della politica.[19]

[1]Com’è che non ho avuto politicamente nessun rilievo sulla scena italiana dal 1944 in poi, pur dopo tanto lavoro politico?”, Antifascismo tra i giovani, Edizioni Célèbes, Trapani, 1966, pag.8

[2]E sono contento di dedicare oggi energie alla scuola, perché i preadolescenti e adolescenti sappiano prestissimo tutto il bene politico, sociale, religioso che c’è, e l’apprendano con capacità aperta e critica di scegliere; e siano tutti i ragazzi salvi dal complesso di inferiorità culturale” ivi pag. 12

[3]Solo con questo impeto e solo staccandomi dalle abitudini della vita precedente, dal caffè, dalle vie cittadine, dal cinema, dagli amici che non avrebbero capito, potevo mutare l’animo, ricostruire la mente, affidarmi ad una tensione morale.” Ivi, pag. 13

[4]era la costruzione religiosa, la coscienza della finitezza umana, del distacco da una civiltà che valuta positivamente soltanto chi fa, chi rende, chi è forte, chi è attivo, e provai, invece, che cos’è aggirarsi sfiniti per le vie sonanti, e vedere gli altri avanzarsi nel lavoro, nelle “affermazioni””, Ivi. pag. 14

[5]Fu lì, su questa esperienza che l’opposizione al fascismo si fece più profonda, e divenne in me religiosa; sia nel senso che cercai più radicale forza per l’opposizione negli spiriti religiosi puri, in Cristo, Buddha, S,Francesco, Gandhi, di là dell’istituzionalismo tradizionale, che tradiva quell’autenticità, sia nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati spenti dall’autoritarismo ecclesiastico congiunto con l’indifferenza generale italiana per tali cose.” Ivi pp. 19-20

[6]il fascismo, mediante la soppressione dell’aperta informazione, ci aveva provincializzato tutti; una città non sapeva dell’altra, i gruppi, di qualsiasi genere, ignoravano se c’erano altri gruppi simili. Quasi nulla sapevamo dell’antifascismo in Italia e all’Estero”. Ivi, pag.45

[7]Con i partiti che lavoravano clandestinamente non avevamo nessun contatto. Del resto, il loro lavoro era realmente minimo e probabilmente anche quello dei massoni ancora in atto, anche se rimasti fedeli all’amicizia” Ivi pag. 46

8 “Per tutti questi Perugia era “un centro” dove si trovava un mancato insegnante che aveva detto no al partito, con una sua posizione di libero religioso, e nonviolento perfino vegetariano (detto scherzando il “santone” la “psicopompo”); ma, a parte tali cose simpaticamente ma strettamente personali, un antifascista deciso che aveva accettato la povertà, che consumava i margini lasciatigli dalle lezioni private, nello studiare o nel preparare fogli dattiloscritti e talvolta elenchi di libri da leggere, che poi portava nei frequentissimi viaggi”.Ivi pag. 61

[9]Perché solitudine e società per colui che dal centro religioso è aperto a tutto e a tutti, non son più cose separate, ma una sola, germinante nell’intimo in ogni momento. Nell’apertura dell’anima si realizza il contatto e la fusione con una società infinita, e si può ben morire soli sulla croce. Chi ha la forza di essere solo, ha anche la forza di sentire la comunione degli altri molto più profondamente, e li cercherà sapendo. Ogni cosa umana è sorta sulla prima pietra di un’anima”.Elementi di una esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937, pag. 109

[10]Oggi si vuole affermare qualche cosa di meno individualistico; e la prima liberazione dalle angustie, appare il costituirsi di unità più larghe, che abituando a convivenza e comunità d’interessi genti diverse, avvia a superare i particolarismi. Il che viene imposto dal carattere dell’economia moderna, e dal precipizio a cui spinge l’isolamento economico invece dello scambio e della compensazione continua e razionale.” Ivi, pp 122-123

[11]Far sentire l’umanità comune che va rispettata e amata unitariamente; legare più strette le economie in un tutto. Quell’universalismo religioso e questo totalitarismo economico sono le basi di una società mondiale più salda, prendendo le cose in un modo più intimo e più decisivo che non siano le formule giuridiche”.Ivi pag.125

[12]Era già molto ricomporre  un tessuto di razionalità. Di idealità sane, al livello della civiltà del mondo e dei suoi problemi; ristabilire tra gli italiani una partecipazione, una tensione democratica”. Antifascismo tra i giovani, op.cit. pag.104

[13]Non era lieve la mia fatica per rendere evidente questa mia posizione in confronti ai politici disposti ad accettare le limitazioni che l’uso necessario della forza può portare (molti di questi politici accettarono il comunismo prima o dopo il ’44); e, nello stesso tempo, per far riconoscere come strettamente connessa l’esigenza di superare la proprietà privata, cioè di accrescere al massimo le socializzazioni, e congedare il vecchio tipo dell’umanismo romano-americano che afferma congiunta la proprietà e la personalità” Ivi, pag. 116

[14]Per me il mutamento delle strutture costituzionali, da compiere in funzioni di partito e di governo, ha un ritmo meno rapido rispetto all’intensità pressante della rivoluzione religiosa e della convocazione di tutti; e in fondo è la differenza che poi, nel ’43 e gli anni successivi, fu manifesta tra gli amici che vollero e fecero il “partito” e me che volevo il “movimento” (e ho cercato per più di veni anni di far vivere in varie forme extrapartitiche)”ivi pag. 120.

[15]Una volta, nella primavera del ’43, La Malfa, sempre coraggiosissimo venne a Perugia per parlarmi del movimento liberalsocialista, che doveva ormai configurarsi in partito e distinguersi nettamente dagli altri partiti: io vedevo nella trasformazione il prevalere di persone piuttosto repubblicane che socialiste, che avevano guidato il movimento durante la nostra prigionia e il successivo confino di alcuni di noi liberalsocialisti. Per questo non mi dissi favorevole al partito, e non l’ho mai accettato.”Ivi pag. 125

[16] Avevo portato come uno scritto, nel quale spiegavo largamente la mia posizione per un “movimento” largo, intellettual popolare, con iniziative comprensive, e la mia contrarietà al “partito”Dissi agli amici, con i quali avevo svolto tanta attività clandestina, che scegliessero sulla base della mia esposizione e del mio scritto, di cui lasciai a ciascuno una copia. Rimasi solo, e il giorno dopo non partecipai alla riunione del “partito”” Ivi pag.127

[17] “La seconda fu il carattere fondamentale che prese per me la vicinanza tra tutti gli esseri malgrado la separazione della vita e della morte, la realtà di tutti che è sempre presente, la compresenza dei morti e dei viventi che sempre ci aiuta. La mia apertura teistica e ai valori degli Elementi di Vita religiosa scoprì il valore centrale, nella prospettiva, della compresenza; e questo fu il risultato più cospicuo della prigione per il suo svolgimento. Le vendette dello spirito sono sempre nonviolente e solenni” Ivi pag. 125

[18]L’io si apre alla sua solitudine, nella quale è presente a sé stesso, e avverte che tale presenza è una realtà fondamentale, nella quale si realizza l’Atto (che è molto più che semplicemente individuale), si attuano i valori che formano la realtà, si apre il tu agli altri fino al sacrificio-amore della nonviolenza e sempre con lo spirito non di imposizione, ma di “libera aggiunta” alla varia vita degli altri” Ivi pag. 134

[19] “Accanto alla mia cameretta, lo studio, colmo di libri, guardava sopra i tetti, la valle , e il monte di Assisi e gli altri di Gualdo Tadino, di Nocera, di Norcia, di Spoleto, di Trevi, di Montefalco, di Bettona, di Deruta, il colle di Brufa, uno dei paesaggi più armonici che io abbia mai visto, e al quale debbo quanto ad una persona”Ivi pag. 62

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