27 gennaio 2018 Un atto di fede

L’astensionismo elettorale non è più solo un fenomeno strutturale legato ad impedimenti oggettivi quali l’età o lo stato di salute o al disinteresse stabile verso la società civile e le sue manifestazioni, ma trova le sue giustificazioni nella disillusione di molti a fronte del depotenziamento del voto e lo svuotamento dei poteri decisionali delle assemblee elettive. Negli ultimi tempi inoltre si è arrivati ad un astensionismo fortemente politico, frutto di una scelta ponderata e non occasionale, vissuto come equivalente al voto attivo, una reazione ad una modalità di fare politica caratterizzata da un linguaggio violento e aggressivo e a pratiche sbrigative e liquidatorie di diritti, di diversità, di criticità. Non a caso molti parlano di un “partito degli astenuti” , come di un soggetto né strutturato né rappresentato, ma in grado, nel caso di un suo rientro nel campo elettorale, anche in cifre minime, di alterare profondamente il quadro politico.

Questo appare l’obiettivo di quasi tutte le forze in campo, anche se la destra sembra rivolgersi più al “partito degli indecisi”, l’altra fetta del non voto, ma molto più fluttuante, destinata fisiologicamente a ridimensionarsi drasticamente.

La sinistra invece si rivolge allo zoccolo duro degli astenuti, quello animato da rancore e volontà punitiva nei confronti di partiti di cui avverte con fastidio la mutazione di linguaggio e di obiettivi. In particolare sembra essere l’obiettivo principale dell’ultimo nato nel panorama politico italiano: Liberi e Uguali. Ne fanno fede le dichiarazioni dei suoi leader, tutte mirate a (ri)conquistare al voto e alla politica le alte percentuali di abbandono e di disillusione di militanti, simpatizzanti, elettori dell’ex PCI, del fu PDS, del PD renziano. Sembra che questo sia addirittura il core business della nuova “ditta” o meglio, della sua mission. Sulla base di questo ragionamento, elettoralistico, ma anche politico, si è giustificata la fuoriuscita della minoranza dal PD di Renzi, l’aggregazione con  alcune forze già esistenti a sinistra, la nascita di un nuovo soggetto politico e la partecipazione autonoma  alla campagna elettorale del 4 marzo.

Tutto legittimo, tutto opportuno, tutto necessario.

Ma per raggiungere questo obiettivo non basta dichiararlo né tantomeno dichiararsi di sinistra per rappresentare questa diaspora.

Occorre invertire la rotta sin qui seguita, fare pratica di discontinuità nella forma e nella sostanza, rompere con schemi e logiche che sono perdenti perché inefficaci e incredibili, cambiare le modalità di selezione dei gruppi dirigenti e la individuazione dei candidati a cariche elettive e di rappresentanza, contrapporre alla autoreferenzialità dei ceti politici la soggettività e la partecipazione dei gruppi e dei movimenti sociali. Tutto questo non è perseguibile nel mese di campagna elettorale che abbiamo davanti, ma può essere l’inizio di un processo che vada in questa direzione.

Ebbene le modalità, gli schemi, le logiche con cui LeU ha definito i propri candidati sembrano smentire tutto questo.

Le forze politiche costituenti, anziché fare un passo indietro ne hanno fatto quattro in avanti, rivendicando rappresentanze di parte a scapito anche dei territori, considerati a quel punto feudi o colonie, dove paracadutare candidati estranei quando addirittura sconosciuti, azzerando il protagonismo locale anche quando era forte per partecipazione e consenso reale. E’ il caso dell’Umbria dove un candidato che appariva “naturale”, Mauro Volpi, sembrava destinato a raccogliere consensi elettorali, dopo quelli ottenuti con la sua storia professionale di docente e di costituzionalista e con il suo impegno infaticabile nella difesa della Costituzione Italiana, soprattutto nella campagna referendaria del 2016.

Sacrificato sull’altare di una ottusa e miope logica spartitoria, anziché portare in parlamento le sue capacità e competenze di giurista, gli è stato chiesto da LeU un ruolo di testimonianza, quando questo ruolo lo esercitava e lo continuerà ad esercitare brillantemente all’interno dell’associazione Democrazia Costituzionale, di cui è socio fondatore, alla cui militanza avrebbe dovuto rinunciare in caso di candidatura.

Non sembra un caso isolato, ma diffuso in tutta la penisola e getta un’ombra inquietante sulla volontà e sulla possibilità di LeU di essere una forza realmente alternativa nel panorama politico e attrattiva nei confronti dei delusi ma non rassegnati transfughi della sinistra italiana.

A questo punto un voto a LeU non è più una scommessa, quanto un atto di fede.

 

5 Commenti

  1. mi sembra si possano trovare ragioni ancora più drastiche per l’astensionismo oltre a quelle più ovvie di corruzione, affarismo, criminalità. La politica, quando si è sforzata di essere onesta e sincera, è rimasta al XX secolo se non al XIX mentre ora siamo nel XXI secolo.

  2. Come già da me espresso ritengo che la nuova formazione politica miri fondamentalmente ad essere Liberi da Renzi e Uguali a D’Alema: mi pare ben poco per risollevare una Nazione allo sbando e un’economia asfittica, prossima all’agonia. Ti invito a valutare il pensiero di un fiorentino docente di economia presso l’Universita’ di Pescara: Alberto Bagnai. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.

  3. Per chi odia il gioco d’azzardo e non ha il “dono” di nessuna fede è arduo votare per “scommessa” o per “atto di fede”. E allora… ho ancora un mese!
    Paolo Della Torre

  4. Caro Marcello, sono stato molto indeciso se intervenire o meno, poi ho deciso ed eccomi qua. Non voterò la quasi fotocopia di quelle “cose” o “ditte” che si sono succedute dopo lo scioglimento del Pci; del resto, il programma di Leu, se tale lo vogliamo considerare,è, più o meno, la riedizione dell’accordo “programmatico” Bersani-Vendola di cinque anni fa. Tutti, anche i leusti, sanno che c’è il “pilota automatico”, secondo l’infame definizione dell’osannato Draghi: e nulla di peggiore accadrebbe sul piano politico-economico di quanto sia accaduto fino ad oggi se si realizzasse un’affermazione della destra o dei pentastellati; proporsi,come fanno i leuisti, quale “sinistra di governo” non farà che accrescere il rigetto verso la sinistra tout-court, perché, anche confusamente, anche barbaramente, anche in forme plebee tutti sanno che quella che passa per essere la sinistra porta responsabilità primarie nella gestione neoliberale del capitalismo e della sua crisi (nonostante tutto)inarrestabile; è la “sinistra” che ha praticato tagli e svendite giacché bisognava ridurre il debito pubblico, pagare annualmente circa 80 miliardi di interessi sul debito, rassicurare i mercati finanziari,impedire i fallimenti delle banche ecc. ecc.; azzerare lotte e diritti sociali per attrarre investitori in questo magnifico posto al sole ecc. ecc. Una sinistra che voglia essere tale deve rompere con la gestione dello Stato e dell’economia; ricominciare da capo nell’ottica di un lavoro di lunga lena: riprendere in mano i suoi “fondamentali”, rimettersi a studiare, e ritornare al popolo con una costante iniziativa di propaganda teorica e politica per favorire tutte quelle iniziative tendenti a riorganizzare in primo luogo un’identità di classe. Se un insegnamento possiamo ancora trarre dalla storia del movimento operaio e socialista (non solo italiano, ovviamente) è che si mosse dall’inizio dell’Ottocento senza certezze, senza risorse, tra lotte sociali di orizzonte anche minimo, intrecciando la costruzione del bagaglio teorico con quella delle strutture dell’organizzazione e dell’autoorganizzazione, sviluppando la maturazione politica nel vivo di uno
    scontro teorico-politico durissimo. Ti saluto con affetto e amicizia, contento di averti rivisto dopo tanti anni qualche tempo fa. Fabio Bettoni, (vecchio) marxista apolide non pentito.

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