Sicilia

In cima al monte, di fra i tamerici e i sugheri radi apparve l’aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l’aspetto di una aridità ondulante all’infinito in groppe sovra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione: un mare che si fosse ad un tratto pietrificato nell’attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascondeva in una piega anonima del terreno e non si vedeva anima viva: sparuti filari di viti denunziavano soli qualche passaggio d’uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del mare, ancor più minerale e infecondo della terra. Il vento lieve passava su tutto, universalizzava odori di sterco, di carogne e di salvie, cancellava, elideva ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, 1962, pag. 127

 

…Stiano affondando, amico mio, stiamo affondando…Questa specie di nave corsara che è stata la Sicilia, col suo bel gattopardo che rampa a prua, coi colori di Guttuso nel suo gran pavese, coi suoi più decorativi pezzi da novanta cui i politici hanno delegato l’onore del sacrificio, coi suoi scrittori impegnati, coi suoi Malavoglia, coi suoi Percolla, coi suoi loici cornuti, coi suoi folli, coi suoi demoni meridiani e notturni, con le sue arance, il suo zolfo e i suoi cadaveri nella stiva: affonda, amico mio, affonda…

 

Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Einaudi, 1978, pag. 92

 

C’era una Sicilia che gli faciva piaciri a taliarla era proprio quella Sicilia fatta di terra arsa e riarsa, gialla e marrò, indovi tanticchia di virdi testardo arrisaltava sparato come una cannonata, indovi i dadi bianchi delle casuzze in bilico sulle colline pariva dovissero sciddricare abbascio a una passata più forte di vento, indovi persino alle lucertole e alle serpi alla controra gli veniva a fagliare la gana d’infrattarsi dintra a una macchia di saggina o d’ammucciarsi sutta a una petra, rassegnate inerti al loro destino, quale che era.

 

Andrea Camilleri, La prima indagine di Montalbano, Mondadori, 2004, pag. 101

 

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