Mi sciacquai i nuovo la faccia. Quando chiusi gli occhi sotto il freddo dell’acqua, vidi i volti dei miei commilitoni, ragazzi che erano stati là fuori troppo a lungo, con le gambe disseminate di ulcere e il fetore dei piedi edematosi che saliva dagli anfibi, terrorizzati dalle mine e dalle trappole esplosive, nessuno di loro in contatto con ciò che era stato prima della guerra. Un meccanico di San Bernardino con un feticcio voodoo attorno al collo e uno scalpo legato al fucile. Un ragazzo di colore di West Menphis, Arkansas, fuori di testa per troppe anfetamine e troppi scontri a fuoco, un asciugamano verde avvolto attorno alla testa come il cappuccio di un monaco, il suo lanciagranate decorato con le strisce di una tigre. Li potevo sentire marciare, i volti emaciati, le uniformi irrigidite dal sale, l’uno che alimentava la rabbia dell’altro, il tonfo sordo dei loro stivali su un ponte di legno.
James Lee Burke, La ballata di Jolie Blon, Meridiano zero, 2005, pp. 218-219
Quella era una guerra ben diversa da quella che lui aveva combattuto, e forse da tutte le altre guerre: capì o immaginò che in quel conflitto c’era un’assoluta mancanza di ordine, di senso o di struttura, che chi vi combatteva non aveva più alcun proposito o direzione da seguire e che pertanto non si raggiungeva mai un obiettivo, non si perdeva né si conquistava nulla, non c’erano progressi da registrare né la benché minima possibilità, non già di gesta gloriose, ma neppure di una qualche forma di dignità per chi si batteva.
Javier Cercas, La velocità della luce, Guanda, 2008, pp. 91-92
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