27 gennaio 2017 La fretta è cattiva consigliera

Da un partito, che è la principale forza politica del paese, che dispone attualmente della maggioranza parlamentare e che è titolare del governo, ci si sarebbe aspettato che intensificasse la sua azione governativa, portando a casa risultati importanti nel campo legislativo e in quello economico, garantendo tutto il sostegno possibile alle popolazioni terremotate e creando le basi per la ricostruzione di quei paesi e di quelle comunità. La tanto invocata governabilità, resa possibile dai numeri parlamentari e favorita dalle evidenti contraddizioni delle forze di opposizione, andava una volta tanto messa a leva, per rispondere agli immediati e urgenti problemi della maggioranza degli italiani e puntare poi a recuperare consensi e fiducia, alla fine fisiologica della legislatura, neanche tanto lontana.

Tutto, meno che chiedere il voto anticipato, mandando a casa il proprio governo, sciogliendo la propria maggioranza, perdendo tempo prezioso, a fronte delle scosse continue del terremoto del centro Italia, di quello dell’economia per non parlare di quello finanziario.

Storicamente le elezioni anticipate le hanno chieste sempre le opposizioni, nella speranza di acquisire consensi elettorali maggiori, giocando o sullo smarrimento e la sfiducia degli elettori, o sulla credibilità dei propri progetti politici. Mai le forze di governo, sempre mal disposte a rinunciare alle opportunità, alle posizioni di forza, al controllo di leve di potere e di comando, garantite da potere esecutivo, ben sapendo anche che il “potere logora chi non ce l’ha”.

Ma tale partito ha come segretario Matteo Renzi, la cui unica preoccupazione è solo quella di una sua “riapparizione” sulla scena politica, da protagonista mediatico ed affabulatore, non certo da statista, dopo la sua clamorosa sconfessione nel referendum istituzionale e nella dichiarata incostituzionalità della sua legge elettorale. Non sembra preoccuparsi, oltre che del suo particolare, di un interesse generale, anche se di partito, cioè di una “parte” del paese, quella impoverita, tradita, inascoltata, ammesso che il suo partito sia organizzato per ascoltarla, sostenerla e rappresentarla.

Di qui la fretta, il bruciare i tempi, con il rischio (o la certezza) di bruciare la riflessione, il dibattito, il confronto, indispensabili in questo momento per capire dove va il mondo dopo Trump, dove va l’Europa dopo la Brexit e la crescita, politica per ora, dei nazionalismi e  dei protezionismi, dove va l’Italia, dopo la tragedia immane del terremoto in centro Italia, dopo il collassamento del suo sistema finanziario, dopo la mancata ripresa del suo sistema produttivo.

Chiedono le elezioni anticipate coloro che invece rischiano di bruciarsi come forze politiche.

Il movimento 5Stelle innanzitutto, prima che l’esperienza romana naufraghi in malo modo e prima che si accentui un esodo dalle sue file, provocato da una gestione autocratica e autoreferenziale. Il 40% dei consensi elettorali, garantito da Grillo senza nessuna alleanza, sembra essere un obiettivo per ricompattarsi, ridimensionare il dissenso interno, gettare il cuore, non i programmi e i progetti, oltre l’ostacolo, un miraggio più che un risultato alla sua portata, a meno che la rabbia e il malumore popolare crescano ancora, non frenati né orientati da nessuno.

La Lega è resa di fatto ormai dispnoica dalla sua corsa alla leadership del centro destra, che non sembra prevedere traguardi immediati o almeno redditizi. Rischia di essere egemone dopo una battaglia fraticida con Berlusconi, ad alto costo, perdendo una consistente fetta dell’elettorato moderato, anche perché Matteo Salvini è costretto ad esaltare le inquietanti analogie con Trump e Le Pen.

Altri sono attendisti, resi prudenti da possibili colpi di coda parlamentari, da nuovi scenari elettorali, da un colpo di reni dell’attuale governo, dalle perplessità del Presidente della Repubblica.

Dovrebbe esserlo anche il PD, perché ha il coltello dalla parte del manico. Ma quel manico lo stringe Matteo Renzi.

27 gennaio 2017

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