I giovani nella società del disagio, Terni 12 dicembre 2016

Debbo confessarvi di essere oggi in grande imbarazzo nel partecipare a questo incontro, perché temo di non essere di grande aiuto nel vostro processo di formazione.

Fondamentalmente per due questioni:

La prima riguarda la mia professionalità, o almeno quella che è stata fino a due anni fa, al momento della mia andata in pensione. Io infatti non sono uno psichiatra, né uno psicologo, né un antropologo né tantomeno un sociologo. Non ho esperienze lavorative dirette o indirette nel mondo dei giovani, non ho fatto ricerche specifiche, né ho diretto servizi deputati ai giovani. Sono infatti un medico igienista che ha lavorato, nell’ambito della Regione Umbra, nel campo della programmazione regionale e in minima parte, in quella sociale. Di questo e solo di questo, ho una certa esperienza. Non so se basterà ad affrontare i vostri problemi professionali ed imboccare le strade giuste per risolverli.

La seconda riguarda il contesto culturale, sociale e politico del nostro paese, e non solo, in questa fase storica. Io credo che voi, nel vostro lavoro, siate costretti, per una scelta tecnica e non ideologica né morale, a parlare di accoglienza, di sostegno, di diritti, di inclusione sociale, di tolleranza, di integrazione, di solidarietà. Nella larga parte dell’opinione pubblica prevalgono invece altre parole d’ordine: azzeramento dei diritti, intolleranza, esclusione sociale, separatezza, egoismo. La società nel suo complesso concepisce ancora le sue contraddizioni, da essa prodotte e alimentate, come rifiuti, scorie, elementi di disturbo se non di scandalo. Questo significa che molte difficoltà nel vostro lavoro non sono legate solo a problemi cosiddetti “sindacali”, a carenza di organico, a scarsa disponibilità di risorse, a inadeguatezze e disfunzionalità negli assetti organizzativi, ma a scarsa o nulla “attenzione” ai sempre crescenti fenomeni del disagio sociale, in particolar modo delle giovani generazioni. Quando va bene, vi si chiede e vi si danno le risorse, per essere i notai della sofferenza, della disperazione, dell’emarginazione.

Questi due elementi spiegano il mio imbarazzo, la mia difficoltà ad essere pienamente propositivo e risolutivo, come voi legittimamente vi aspettate da un docente, in un corso di formazione.

Per non rischiare però l’autocommiserazione e con essa la depressione e la paralisi del pensiero e dell’azione, provo a proporvi tre temi di discussione, da affrontare nei gruppi di lavoro che seguiranno e anche nei momenti di dibattito e confronto comune.

1.Marginalità della “questione giovanile” rispetto all’emergere delle problematiche legate alla condizione anziana e alla persistente centralità della cura della malattia, basata su una medicina d’attesa anziché una medicina d’iniziativa.

Siamo di fronte a quella che viene definita “transizione demografica”,  cioè il processo di cambiamento della struttura globale della popolazione prodotto dalla mutevolezza delle fasi di relazione tra tassi di natalità e tassi di mortalità.

Le tendenze demografiche un atto in Italia mostrano infatti un aumento degli anziani sia in senso relativo che assoluto, legato al declino dei segmenti più giovani e che l’80% delle morti avviene nella popolazione anziana, quando nel 1900 solo il 25% delle morti avveniva in soggetti ultrasessantacinquenni.

Va detto subito che l’invecchiamento della popolazione è un risultato positivo, conseguito nel tempo grazie alla buona qualità della vita, al miglioramento delle condizioni socio-economiche, nonché all’adeguatezza dei servizi socio-sanitari. La transizione demografica sembrerebbe imporre la centralità delle problematiche legate alla condizione anziana, ma paradossalmente così non è. L’attenzione politica, gestionale e tecnica non è destinata a questo fenomeno strutturale, anche perché l’invecchiamento della popolazione produce sì un aumento significativo della quota di popolazione anziana, ma non necessariamente tutta in condizioni di fragilità se non di vera e propria non autosufficienza, ma in buone condizioni di salute.  Questa quota ha tempo e risorse da dedicare al mantenimento psicofisico, per praticare una concezione del benessere individuale che travalica i confini tradizionali tra sanità, wellness e sociale ed una conseguente trasformazione delle connessioni tra settore sanitario, socio sanitario e sociale.

Gli anziani in buona salute sono infatti all’incirca la metà della popolazione ultrasessantacinquenne e una buona politica dovrebbe sapere valorizzare al massimo questo capitale di salute, cercando di farlo crescere attraverso strumenti differenziati e mirati a questa popolazione target, idonei per favorire l’invecchiamento attivo e consapevole.

Al contrario rimane centrale un modello diagnostico terapeutico che si basa su una medicina di attesa, funzionale al trattamento delle acuzie, anziché su una medicina d’iniziativa, coerente con il trattamento delle malattie croniche, ma anche funzionale alla prevenzione e alla promozione della salute.

2.Centralità della persona all’interno del rapporto terapeutico ma anche all’interno della narrazione sociale.

Sono disponibili ed utilizzate ampiamente, in sanità e non, altre categorie concettuali, a partire da quella di cliente, che dominò, anche in letteratura, negli  anni immediatamente successivi al processo di aziendalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, introdotta dalla riforma De Lorenzo del 92/93 (e confermata dalla riforma Bindi del 1999) ma che, fortunatamente, entrò in crisi a fronte del riaffermarsi del concetto che la salute non era una merce, ma un diritto primario, sancito dalla Costituzione Italiana, non oggetto quindi di pure logiche di mercato e quindi di profitto. Il cliente nei fatti non ha diritti se non quelli che gli derivano dal fatto che paga e quindi sceglie le prestazioni che reputa migliori e convenienti.

C’è la categoria di utente, che però prende in considerazione solo la dimensione contingente e occasionale dell’utilizzo dei servizi.

E’ ampiamente disponibile, perché largamente usata soprattutto nel linguaggio sanitario, la categoria di paziente, la cui centralità è ripetutamente chiamata in causa, confermando però la oggettivazione della condizione e la subalternità nel rapporto con il potere sanitario, in una dimensione dominata dalla asimmetria informativa, in cui il paziente ha evidenti difetti di conoscenza, vive una particolare condizione psicologica ed è di fronte alla natura probabilistica dell’efficacia degli interventi sanitari.

C’è infine la categoria di cittadino, estremamente suggestiva perché afferma la titolarità di diritti e pertanto la legittimità  a esigere servizi e prestazioni a prescindere da un rapporto monetario, ma in nome di principi generali scritti nella Costituzione e calati in leggi. Siamo però di fronte, in Italia e in Umbria, ad un bisogno di salute espresso non solo da cittadini, ma anche da soggetti che pur vivendo nel nostro paese e nella nostra regione, non hanno  diritto di cittadinanza, ma a cui va riconosciuto il diritto alla salute.

La categoria di persona, è invece in grado, a mio modesto parere, di coniugare soggettività e diritti,  cittadinanza e dignità, responsabilità e partecipazione.

Non vorrei però che tutto questo venga letto in chiave puramente nominalistica, di pura accademia del linguaggio, di sofismi se non di intellettualismi.

Considerare la persona come centro del sistema salute significa affermare che non esistono i giovani, ma le persone giovani, che non esistono i cancerosi ma le persone ammalate di cancro, che non esistono i non autosufficienti ma le persone non autosufficienti, cioè esseri umani per i quali la condizione di malato o di disabile o di giovane è solo un aspetto di una vita comunque complessa, dove si è stati anche giovani, anche adulti, anche sani, anche socialmente utili e attivi, con un bagaglio quindi umano  di esperienze e competenze che rappresentano una incredibile risorsa per affrontare e gestire al meglio la particolare  condizione che quella persona particolare vive in quel particolare momento esistenziale.

Il concetto di persona comporta infatti sul piano terapeutico ed assistenziale  interventi che non possono essere  standardizzati, ma personalizzati, mirati sui bisogni, le domande e le aspettative di quella persona, quindi informazione, quindi compliance, quindi Piani Assistenziali Personalizzati, quindi Patti di Cura.

L’enfasi sulla persona comporta però il rischio di una deriva sia sul piano teorico che su quello organizzativo gestionale. Rischia cioè di far prevalere il principio di responsabilità personale, secondo cui l’individuo è il principale responsabile del proprio destino, anche di fronte agli ostacoli e agli svantaggi sociali. Nell’ambito della protezione sociale spetta alla persona il compito di scegliere il sistema di protezione individuale che ritiene più rispondente ai propri bisogni e l’entità e la qualità della protezione dipende in gran parte dalla capacità razionale, dalle conoscenze e dalla possibilità di spesa della persona. Chi ha difficoltà a scegliere autonomamente le soluzioni più appropriate ai propri bisogni e rimane escluso dalle risposte a lui necessarie non può fare ricorso a “diritti riconosciuti”, ma può ricorrere a motivazioni e sentimenti di altruismo e di beneficenza istituzionale e sociale. Il nostro principio di riferimento è un altro: è il principio di solidarietà, secondo il quale il bene comune può essere conseguito solo con un grande sforzo solidale che vede interessate e responsabilizzate le persone, le famiglie, i gruppi sociali, le imprese, le istituzioni. Questo principio sorregge il Servizio Sanitario Nazionale che è di tipo universalistico, caratterizzato da pari opportunità di accesso ai servizi, da uguaglianza di trattamento ad ogni persona, da  condivisione del rischio finanziario per il finanziamento del sistema, basato sulla solidarietà fiscale.

Lievito di tutto questo deve essere la partecipazione, la possibilità per i cittadini di acquisire maggiore potere all’interno della comunità, sia tramite un aumento delle informazioni necessarie a indirizzare scelte e decisioni sia attraverso l’acquisizione di maggior peso riguardo alle decisioni riguardanti la vita comunitaria.

In ambito sanitario comporta il maggiore coinvolgimento delle persone nelle decisioni che le riguardano, al di là del consenso informato, riconoscendo loro il diritto al coinvolgimento nella definizione e nell’attuazione dei trattamenti, la sollecitazione dei suggerimenti, anche critici, la facilitazione della formazione di gruppi di mutuo auto-aiuto tra pazienti e familiari, la redazione di linee guida e di descrizione delle condizioni patologiche e dei trattamenti destinate specificatamente agli utenti. Questo vale anche per gli operatori del sistema sanitario, prevedendo loro la attribuzione di maggiore responsabilità e di maggior autocontrollo.

  1. Disagio del mondo giovanile o disagio del mondo adulto?

Alcuni esempi:

Il bullismo non è il risultato di tolleranza sociale del mondo adulto, genitoriale in particolare? Chi ha consegnato la rete Web, strumento principale per l’efficacia dell’azione intimidatoria, nelle mani dei giovani?

Chi ha fatto del consumismo l’ambito principale di realizzazione della persona, la dimensione ottimale di soddisfazione, il metro di confronto e di affermazione sociale?

Il consumo problematico di sostanze tra i giovani non è la conseguenza di una vasta ed organizzata offerta da parte del mercato clandestino della droga, fonte di enormi profitti per associazioni criminali, divenuti parte integrante del tessuto finanziario ed economico di ogni società adulta?

Chi ha delegittimato socialmente e marginalizzato economicamente il lavoro manuale, oggetto per questo di vero e proprio disgusto e rifiuto da parte di intere fasce generazionali?

Il rischio di una fase maniacale tra depressione ed esaltazione:

Depressa la presa in carico per esaltare l’attività prestazionale, occasionale e contingente.

Depresso il coinvolgimento e l’inclusione per esaltare il tecnicismo farmacologico e terapeutico

Depressa l’accettazione per esaltare l’esclusione e la segregazione

Depresso il potenziamento e la qualificazione per esaltare il contenimento dei costi e la salvaguardia della disponibilità finanziaria

Una proposta:

Le subculture giovanili, non nel senso di inferiori ma subalterne a quelle dominanti, vanno (ri)conosciute, perché le forme diverse di ritualità le varie gerarchie valoriali, le nuove modalità comportamentali, vanno comprese e accettate, come espressioni legittime di un mondo che non è protagonista del proprio futuro.

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