Lo scontro referendario da poco concluso è stato spesso descritto come una gara sportiva, che avrebbe decretato con chiarezza vincitori e vinti, in cui l’importante era vincere non partecipare, grazie alla determinazione, alla passione, all’impegno dei soggetti in campo. La posta pertanto non erano valori, norme e regole condivise per la vita civile del paese, ma l’affermazione di una strategia politica, di una squadra di governo, di una logica del più forte e del più abile. Il problema è che l’esito referendario non ci consegna dei vincitori, ma solo dei perdenti. Chi si è schierato per il No, al netto di opportunismi e calcoli politici, lo ha fatto come un atto di legittima difesa, un’azione di resistenza, un posizionamento di salvaguardia di elementi unificanti e di tutela, non per conquistare un posto nel podio, per aggiudicarsi un premio, per affermarsi su altri. Il fronte del No non è una maggioranza di governo o un soggetto partitico, né tantomeno una coalizione elettorale. Non ha vinto nulla non avendo messo se stessa in palio, ma ha agito solo per il mantenimento della Carta Costituzionale.
Non può pertanto fare proposte legislative, indicare percorsi parlamentari, individuare strategie di governo. Questo spetta alle forze politiche, agli organi istituzionali e alle assemblee elettive, in primis al Parlamento della Repubblica.
Matteo Renzi non può, come hanno detto alcuni, lanciare il pallone nell’area avversaria, proprio perché non siamo in una gara di calcio. Non può chiedere agli altri quello che è il suo compito istituzionale, in quanto Presidente del Consiglio dei Ministri, leader di una maggioranza parlamentare, nonché segretario del partito di maggioranza relativa. Gli oneri sono tutti suoi. Anche perché è lui che ha voluto il referendum, è sua la proposta di modifica della Carta Costituzionale, è lui che ha politicizzato la campagna referendaria facendone un voto extraparlamentare sul suo governo, è lui che voleva vincere su tutto e su tutti, per avere quel plebiscito popolare che finora non aveva avuto nelle urne. Ed è lui che ha perso.
Ma non può, come sicuramente ha fatto spesso da bambino, per ritorsione alla sconfitta, andarsene a casa, portando via il pallone.
Deve rimanere al suo posto, deve ripresentarsi al Parlamento per chiedere la fiducia su un nuovo programma di governo di fine legislatura, con un nuovo Consiglio dei Ministri depurato di elementi folclorici e di pura apparenza, con pochi ma chiari obiettivi, che devono riguardare essenzialmente l’emergenza economica e finanziaria del paese e la definizione di una legge elettorale che sia legittima e legittimata. Se si deve dimettere è dalla carica di segretario del PD, avendo portato il partito a una serie ripetuta di sconfitte elettorali, ultima al referendum costituzionale, alla perdita di iscritti, alla trasformazione di una comunità politica in una inefficiente macchina elettorale. Abbia il coraggio di affrontare il Parlamento italiano e il Congresso del suo partito. La stagione riformista, di cui il paese ha assolutamente bisogno, potrà partire solo alla fine di questa legislatura, con nuove elezioni, che forse sanciranno nuove maggioranze, nuove leaderschips, nuovi gruppi dirigenti, avendo a garanzia la vecchia e buona Costituzione della Repubblica Italiana.
5 dicembre 2016
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