26 novembre 2016 La rabbia

Tutto il mondo occidentale è attraversato da una ondata di movimenti definiti o autodefinitisi “populisti”, che stanno minacciando (con il voto) il complesso delle istituzioni che detengono il potere, sia nella vita politica in generale, sia in singoli settori di attività.

E’ un attacco a tutto campo che mina egemonie politiche e culturali, che sembravano consolidate. Viene urlato più che praticato un antagonismo radicale, nonché una estraneità totale all’insieme dei detentori del potere economico e politico e dei loro sostenitori, che vigilano sul mantenimento dell’ordine costituito e occupano un posto di rilievo nella vita sociale e culturale. In particolare le leaderschips politiche dei paesi occidentali sono accusate di essersi trasformate in caste privilegiate, espressioni di poteri forti e  a tutela di interessi particolari.

E’ un attacco senza precedenti, asprissimo e virulento nei toni, che ha finora utilizzato unicamente i canali istituzionali e gli spazi concessi dalle democrazie occidentali, a partire da quelli elettorali. Ed è in questa sede che i movimenti “populisti” hanno ottenuto significativi successi, acquisendo quote importanti nei parlamenti nazionali, conquistando la guida di governi e amministrazioni locali, imponendosi nelle elezioni presidenziali di potenze mondiali, giocando un ruolo non marginale nella Brexit, mettendo in discussione assetti politici bipartitici, ipotecando la guida politica di paesi importanti come la Germania, la Francia, l’Austria, l’Italia. Sono movimenti molto diversi tra loro, che non è possibile mettere sullo stesso piano. Hanno però un elemento che li unifica: una larga base elettorale nel proletariato urbano delle grandi città, soprattutto di grandi aree ex industriali, nei gruppi rurali dimenticati, nel ceto medio proletarizzato dalla crisi, nei bianchi spaventati dal crescere demografico e sociale di neri, latinos, mediorientali ed orientali in paesi originariamente omogenei sul piano etnico o storicamente in grado di controllare e gestire una società interetnica, in tutti coloro che sono stati impoveriti ed emarginati da una globalizzazione che ha creato grandi trasformazioni economiche e sociali nel bacino del Pacifico, ma ha totalmente trascurato l’Africa e l’area del Golfo Persico e ha appena lambito l’Europa.

Agli establishments è inoltre venuto meno il loro principale strumento di controllo sociale: i mass media. Né i grandi giornali, né le principali rete televisive, né sondaggisti ed opinionisti, da sempre al servizio dell’ordine costituito, riescono a condizionare gli umori e ad orientare le passioni di ceti popolari ormai disillusi ed esasperati, alla ricerca di un miglioramento delle proprie condizioni di vita materiale e di un recupero di un protagonismo e di un peso nella società.

Si sta delineando comunque una risposta  per contrastare l’ondata populista: la messa in discussione della democrazia, ormai ritenuta non più funzionale alle classi sociali dominanti, se non addirittura pericolosa, a partire dal principio di “una testa un voto”. Già dopo la Brexit molti autorevoli (sic) opinionisti mettevano in discussione l’opportunità di affidare anche a rurali analfabeti una decisione che doveva spettare solo al potere politico, affiancato da quello tecnico. Al posto della volontà popolare quella di oligarchie, di consorterie, di apparati separati, di ceti urbani scolarizzati. Questo orientamento, che torna a privilegiare assetti di potere oligarchici o monocratici, punta direttamente ad esasperare una presunta contraddizione tra il principio della governabilità e della rappresentatività. I paesi vanno governati e per questo serve stabilità, minacciata dal confronto e dallo scontro con chi rappresenta i numerosi interessi presenti nelle comunità moderne e postmoderne, inevitabilmente complesse, che andrebbero, da chi le governa, capite, interpretate, decodificate, ma soprattutto ascoltate, aprendo mille sedi di confronto, con interlocutori credibili e autorevoli.

Invece vengono proposti sistemi elettorali fortemente artificiali nei voti e nei seggi, a preferenza unica, abolendo collegi uninominali, innalzando soglie e sbarramenti. Contestualmente le assemblee elettive vengono ridotte di numero, ridimensionate nei loro compiti e funzioni o trasformate in assemblee di nominati, non più sedi di dibattito e confronto politico, pena la lentezza o la modifica delle procedure legislative, ma luoghi dove rappresentare solo un consenso virtuale al potere esecutivo.

E’ una strada sbagliata e pericolosa, perché darà ancora più forza ai movimenti populisti, che rimarranno gli unici interlocutori di classi e ceti sociali senza più voce, impossibilitati a esprimere esigenze, aspettative, proposte, dimenticati ed emarginati. Saranno sempre più affascinati dai “vaffa”, da un linguaggio truculento e aggressivo, da tutto quello che apparirà politicamente scorretto, perché corrisponderà alla loro rabbia, alla loro sofferenza, al loro scontento.

Solo la democrazia più piena potrà recuperare questa rabbia, se potrà essere rappresentata, narrata, ascoltata e recuperata in una idea di società libera, fraterna, uguale e in un progetto per realizzarla.

Altrimenti si accentuerà la divisione e la frantumazione sociale, verrà meno la credibilità delle istituzioni e dello stato di diritto e prevarrà l’immobilismo della legge del più forte e il ritorno all’indietro del potere di pochi su molti.

Diciamo NO a tutto questo.

26 novembre 2016

 

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