In tempi relativamente recenti si sono manifestate in Italia due stagioni politiche, apparentemente diverse e con percorsi che sembravano divergenti. La stagione che si potrebbe chiamare del “vaffa”, impersonificata da Beppe Grillo e poi rappresentata politicamente dal Movimento 5 Stelle, nata e sviluppatasi con l’obiettivo dichiarato di liquidare il ceto politico, accusato di essere incompetente e corrotto, sia che fosse al governo, sia all’opposizione, con il quale non si volevano né alleanze né convergenze tattiche, in attesa di acquisire il necessario peso elettorale per governare autonomamente. Le parole d’ordine erano trasparenza ed onestà.
L’altra stagione, chiamata anch’essa semplicisticamente della “rottamazione”, fu avviata da Matteo Renzi, con l’obiettivo di liquidare il gruppo dirigente del Partito Democratico, divenuto nel frattempo prima forza politica del paese, ma incapace, per i limiti del segretario, della segreteria e della cultura politica dell’allora maggioranza del partito, ad assumere e gestire pienamente la guida del paese. Le parole d’ordine erano cambiamento e riforme.
Le due stagioni hanno prodotto i risultati auspicati da chi le aveva avviate, avendo il Movimento 5 Stelle conquistato nelle ultime tornate elettorali il governo di città fondamentali, proponendosi, stando almeno ai sondaggi, come la principale forza politica italiana.
Matteo Renzi, divenuto segretario del PD, conquistata per nomina la carica di primo ministro, ottenuto uno strabiliante successo elettorale alle europee, ha sostituito in ogni consesso del partito la cosiddetta “vecchia guardia”, indipendentemente dalle sensibilità politiche che in essa erano presenti ed avviato un ricambio di tipo essenzialmente generazionale. Sul piano governativo ha avviato una stagione da lui definita riformista, con l’obiettivo dichiarato di modificare l’assetto istituzionale del paese, i rapporti tra governo, parlamento e forze sociali, le leggi elettorali, le regole che disciplinano il mondo del lavoro.
Oggi entrambe le stagioni sembrano concluse, o per lo meno, registrano brutto tempo, tempeste e bufere nel campo della meteorologia politica, mentre il terremoto, quello vero, per ora, squassa case e persone.
L’esperienza amministrativa romana si sta infatti rivelando un banco di prova arduo e quasi proibitivo per i 5 Stelle e non tanto sul piano dell’efficacia ed efficienza amministrativa, ma su quello della trasparenza e dell’onestà. Reticenze, bugie, sotterfugi giuridici, guerre intestine, comunicazione a corrente alternata, erano i terreni su cui il movimento aveva sistematicamente bombardato gli avversari politici, in parlamento e fuori, convincendo quote importanti di elettorato, seducendo l’opinione pubblica, interessando i mass media. Oggi sembrano le vittime di se stessi.
Dall’altra parte i numeri impietosi dell’economia, dell’occupazione, della produttività, dei consumi, inchiodano il governo Renzi ad una dimensione quasi fallimentare, soprattutto di fronte alle promesse reiterate e alle continue rassicurazioni su una crescita italiana, che purtroppo non c’è. Il possibile esito negativo del referendum costituzionale, fortemente voluto e reclamizzato da Matteo Renzi, aggiunge ancora brutto tempo alla sua stagione, per non parlare del possibile sorpasso elettorale del PD, a favore dei pentastellati.
In entrambi i casi i protagonisti, volti giovani, nuovi, dotati soprattutto di grandi capacità comunicative, seduttivi, svincolati da appartenenze ideologiche, apparentemente pragmatici, si stanno rivelando del tutto inadeguati, per non dire impreparati, a gestire il potere politico e a rapportarsi con gli altri poteri, rivelando una impressionante povertà di programmi e progetti. Le battute e le controbattute ripetute ossessivamente nei siti e nei blog dei leader di entrambi i movimenti, ormai non riescono a mascherare la povertà di contenuti e la mancanza di proposte, resa ancora più evidente dalla crisi epocale che attraversa l’occidente.
Per cui qualcuno cerca di riproporre il “si stava meglio quando si stava peggio”, ma riproponendo con questo la propria persona, i propri interessi, le proprie esigenze. Ma è una furbata, e non a caso a proporla è colui che Luigi Pintor definì, in un famoso editoriale sul Manifesto, “la volpe del tavoliere”. Come tutte le volpi ha annusato l’assenza di una guida e di un controllo autorevole del pollaio, lo starnazzare delle galline, le falle nella recinzione, ma il suo proposito resta quello di soddisfare la sua fame e giustificare così la propria esistenza.
Ci vuole ben altro. A partire da un soggetto politico strutturato ma aperto, rifondando comunicazione e partecipazione, riducendo al minimo indispensabile leaderismo e personalismi, con regole certe e condivise che definiscano i poteri e impediscono gli strapoteri, chiudendo le stagioni dei partiti azienda, dei partiti della nazione, dei leader che sono nello stesso tempo capi e patron amministrativi, dei segretari politici che sono anche primi e secondi e terzi ministri, degli organismi dirigenti composti di nominati e non di eletti, senza chiarezza né di ruoli né di responsabilità.
Non si tratta di pescare idee nell’ottocento o nel novecento, il duemila è davanti a noi, con tutta la sua potenzialità, anche distruttiva.
7 settembre 2016
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