29 luglio 2016 L’Europa come condanna

L’Unione Europea oggi non è più una scelta, una possibilità tra le altre, una istanza possibile. Per un paese come l’Italia è una scelta obbligata. Siamo un paese manifatturiero ed esportatore, bisognoso di un mercato comune, di partner certi con cui interscambiare beni, servizi, forza lavoro. Non abbiamo un centro finanziario mondiale come la City di Londra, né possiamo aspirare a realizzarlo, magari con la prospettiva di redditizi paradisi fiscali, a fronte della debolezza cronica del nostro sistema finanziario. Mantenere il patto di Schengen per noi non è un atto di generosità né una scelta morale, ma la necessità assoluta di garantire la massima circolazione di uomini e merci. Non possiamo essere un paese terzo rispetto all’Europa, perché saremmo obbligati a subire, molto più di oggi, logiche e scelte fatte non nel nostro interesse, ma in quello di paesi più forti economicamente e finanziariamente. La leadership tedesca, supportata servilmente dalla Francia, non è in discussione né è discutibile in futuro, anche perché non c’è più il contrappeso britannico. I paesi mediterranei, o meridionali, accomunati nell’acronimo PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), non hanno potere effettivo né di veto né di proposta, ricattati per il loro debito pubblico (che consiste in welfare, diritti sul lavoro, servizi pubblici), non più sostenuto da produttività e redditività. Inoltre non appartengono alla cintura difensiva che si vuole ancora tenere intorno alla Russia, come i paesi dell’est europeo. Qualunque tentativo di insubordinazione nei confronti di questa Europa verrebbe pagato a caro prezzo. La Grecia insegna. Il coro unanime che si è levato in Italia sulla necessità di cambiare l’Unione Europea è stonato e flebile.  L’Unione Europea e i suoi organismi non sono sovraordinati rispetto ai governi nazionali ma ne sono subordinati, perché nominati dagli stessi e nessun governo, la Germania in primis, intende andare al di là della unione monetaria. Non un esercito comune, per contenere e razionalizzare spese militari insostenibili, non una intelligence comune a contrastare il terrorismo, non una politica di sostegno ad uno sviluppo economico coordinato e integrato, non piani specifici per ridurre la piaga dell’occupazione giovanile, non una politica di accoglienza e inclusione dell’esodo biblico di migranti in fuga dalla fame e dalla guerra, entrambi prodotte dalla miopia e dagli interessi anche europei. Si invoca maggior democrazia. Quando lo facciamo, con l’elezione diretta del Consiglio d’Europa, lo facciamo per un organismo privo di effettivi poteri. Non possiamo farlo per la Commissione Europea, perché essa è nominata direttamente ai governi nazionali, a cui è subordinata. Solo con loro e unicamente con loro possiamo fare i conti. Questo per quanto riguarda la democrazia rappresentativa. Il ricorso alla democrazia diretta, come nel caso della Gran Bretagna, viene giudicato inopportuno, data la natura delle decisioni che non possono essere demandate al popolo, vista la sua ignoranza e irrazionalità, comunque temerario, controproducente, sovversivo.

Al di là degli auspici non si capisce quindi come si debba ristrutturare questa casa comune. Non si capisce con quale budget, in coerenza di quale disegno, sulla base di quali priorità.

L’impressione è che il processo che si è innescato sia imprevedibile, incontrollabile, ingovernabile. Da tutti, soprattutto da chi ci governa, in Italia e in Europa, da chi gestisce istituti e apparati, da chi è chiamato a programmare, a elaborare soluzioni, a ipotizzare un futuro.

29 giugno 2016

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