Sembrava un dato di fatto che la questione ambientale fosse ormai entrata nell’agenda politica, non in forma occasionale o contingente, ma in seguito alla presa d’atto di indagini, rapporti, raccomandazioni sullo stato di salute, o meglio di malattia del nostro pianeta, a partire dal riscaldamento globale. Pur tra diversi intendimenti legati a sensibilità e interessi diversi si era registrato un intendimento comune su alcuni punti, tra cui la necessità del superamento dell’approvigionamento energetico dai giacimenti fossili, petrolio e gas principalmente. In questa direzione sembravano marciare i principali partiti, i leaders politici più autorevoli, i tecnici più illuminati e competenti, in Italia e non solo, fino ad auspicare soluzioni produttive innovative, una diversa soddisfazione del fabbisogno energetico, l’adozione di tecnologie meno invasive sul piano ambientale. Il tutto racchiuso nel termine di green economy, a significare non solo un insieme di norme più rigide di tutela e salvaguardia, ma un processo di vero e proprio sviluppo economico e sociale. Una nuova categoria concettuale era entrata nel linguaggio politico e tecnico: sostenibilità. A significare che ogni sforzo futuro, legislativo, organizzativo e produttivo doveva essere teso a conciliare sviluppo e ambiente, profitto ed occupazione, produzione e salute. Non più la soluzione manichea di favorire un aspetto del problema a scapito di un altro, non più il primato del realismo sull’utopia, ma una programmazione condivisa e partecipata che individuasse priorità, percorsi, risorse. A conferma di questa nuova tendenza, soprattutto dopo la tragedia di Taranto, ci si sarebbe aspettato dal governo nazionale almeno un piano industriale, che definisse la strategia produttiva del nostro paese, coerente con le scelte europee e un piano energetico che definisse le nuove modalità a lungo respiro con cui soddisfare il nostro fabbisogno in quel settore.
Si scopre invece che il nostro governo, in forme e modi né trasparenti né legittimi, oggetto di indagini, arresti e dimissioni ministeriali, sta favorendo nuove trivellazioni di petrolio in Basilicata, sta progettando oleodotti e nuove banchine di attracco per petroliere, sta trattando la vendita del greggio a società petrolifere straniere perché lo raffinino altrove, in cambio di modeste royalties, che non sono finalizzate neanche a opere di risanamento ambientale, come richiesto da alcune regioni. A chi contesta tali scelte si risponde come nel passato, chiamando in causa la difesa dell’occupazione (esistente), il superamento dell’arretratezza industriale (presunta) e lo sviluppo del paese (ipotetico). Nessun accenno alle fonti energetiche alternative, alla difesa a scopo anche economico dell’ambiente, alla tutela della salute delle popolazioni coinvolte, alla corresponsabilizzazione degli altri organi dello stato, a partire dalle regioni. Una cultura politica, un sapere tecnico, una consapevolezza diffusa sono tutte insieme azzerate da un’azione di governo che mette insieme miopia e favoritismi, superficialità e conflitti di interesse, subalternità e arroganza. Come se non bastasse, di fronte ad un quesito referendario sulle trivellazioni in mare aperto, che pecca di buon senso e garantismo, il presidente del consiglio dei ministri, nonché segretario del partito di maggioranza relativa, ne auspica il fallimento attraverso la non partecipazione ad uno strumento di democrazia diretta, pretendendo dal suo partito e dagli italiani un no senza pronunciarlo.
Con altri referendum invece vuole spazzare via la santa alleanza che è contro di lui e il suo governo del cambiamento (sic), in cui vede coinvolti anche i poteri forti. Non sa o fa finta di non sapere che i poteri forti non esistono, esistono solo i poteri ed è un bene che siano plurali, perché altrimenti se il potere è uno è potere assoluto.
4 aprile 2016
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