10 ottobre 2015 Chi rompe paga e i cocci sono i suoi

A Roma ogni atto amministrativo, come qualsiasi progetto politico, sembra nascere e morire nella corruzione, che appare (o viene fatto apparire) come il contesto sociale ed economico dominante della città. Il politico e l’amministratore pubblico vengono valutati sulla qualità e sull’entità della loro corruzione, ritenuta l’unico parametro di giudizio, l’unica dimensione possibile dell’agire politico, l’unico dato che emerga dall’azione amministrativa. I mass media, i vertici dei partiti, i gruppi politici, gli organi di controllo sono costantemente alla ricerca di segnali, di indizi, di prove di disonestà su cui inchiodare, se presenti, l’avversario o il concorrente per condannarlo, o, se assenti, per assolvere l’ amico, il solidale, l’alleato. Non è necessario essere all’interno di grossi processi speculativi, di grandi manovre criminali, di rinvii a giudizio per reati pesanti, di condanne penali di vario grado, basta una bugia, una gaffe, un atto maldestro, una scelta inappropriata, una caduta di stile per essere criminalizzati, ingiuriati, messi alla gogna mediatica.

Tutto questo sarebbe ineccepibile in un paese dove la trasparenza amministrativa, la giustizia uguale per tutti, la certezza della pena, il rispetto dei diritti individuali e collettivi e delle istituzioni, per citare solo alcune garanzie, fossero un dato certo e diffuso.

Ma non è così, basta pensare che un governatore regionale è ancora al suo posto nonostante una condanna giudiziaria e l’incompatibilità con una legge dello stato. O allo stato di illegalità strutturale in metà del paese e diffuso a vari livelli nell’altra metà. O il fatto che un numero rilevante di parlamentari ha problemi con la giustizia. O alle truffe pubbliche legate ad appalti truccati, a concorsi manipolati, a carriere professionali favorite e facilitate.

Se l’Italia fosse un paese normale la severità di giudizio, politico e giudiziario, l’intransigenza nei confronti del disonesto, piccolo o grande, il pubblico ludibrio nei confronti di chi ruba o mente, sarebbe auspicabile e legittimo.

Ma così non è. Perché a Roma ci si accanisce sulle spese di rappresentanza del sindaco Marino, rese addirittura pubbliche da lui stesso, ma non si effettua lo stesso controllo sulle stesse spese di altri sindaci o di altre cariche istituzionali? Perché si fanno le pulci sulla Fiat Panda, sui viaggi all’estero, sullo stile di vita del suddetto e non altrettanto su quelli di altri pubblici amministratori e titolari di cariche istituzionali? Perché non si chiede conto al sindaco Marino delle scelte fatte da lui e dalla sua Giunta in merito alle politiche per la casa, alla mobilità urbana, alla gestione dei rifiuti, delle risorse idriche e dell’energia, al decoro urbano, solo per citare alcune competenze comunali? Perché non gli si dà atto della lotta contro l’abusivismo commerciale nel centro storico della capitale, monopolizzato dagli ambulanti, di aver sbaraccato il gotha dell’Acea, di essersi scontrato con la lobby dei commercianti per sciogliere il nodo urbanistico dei Fori Imperiali, di aver chiuso la discarica di Malagrotta, di aver messo in discussione la gestione dell’Atac, di aver affrontato assenteismo e improduttività negli uffici comunali, a partire dai vigili urbani? Perché non si riconosce la sua totale estraneità al gigantesco scandalo romano denominato Mafia Capitale?

Lo si accusa di essere un po’ narciso, maldestro, naive, ingenuo, sprovveduto, di aver mentito su cene e viaggi, di essere estraneo alla politica e alle sue regole, di non valutare adeguatamente la fattibilità delle scelte amministrative. Forse non era adatto a fare il sindaco di una città come Roma. Ma Ignazio Marino non era uno era uno sconosciuto, quando si è presentato alle primarie del PD, il suo partito (sic). Era stato senatore, aveva presieduto la Commissiona Sanità del Senato e già in quella veste aveva rivelato tutti i suoi pregi e i suoi limiti. E’ responsabilità del Partito Democratico aver fatto quella scelta, anche se voluta dagli iscritti e non dai vertici, come lo è di Sel, che quella scelta ha fortemente sostenuta. Il problema è che il Partito Democratico non ha nessuna intenzione di pestare i piedi a imprenditori e finanzieri, non vuole mettere in discussione monopoli e privilegi, non pensa minimamente di scontrarsi con la potente lobby dei commercianti, teme le campagne mediatiche dei grandi gruppi editoriali della capitale. Ma soprattutto non ha il personale politico da spendere nell’impegno amministrativo, ha perso per strada o per rottamazione o per incuria competenze e capacità acquisite negli anni, non riesce a garantire il necessario ricambio generazionale attirando ormai non militanti appassionati ma impiegati o apprendisti stregoni, valorizzando solo fedeli alla linea del capo o ossequiosi yes men.

Ha rotto i piatti ed adesso paga e i cocci sono suoi, come lo saranno del M5S, che in questa occasione si è impegnato a fondo non per rendere esplicito un altro tipo di governo, nelle forme e nei contenuti, ma per sfruttarla a fini unicamente elettorali, rivelandosi ancora una volta un movimento giovane nei volti dei suoi esponenti, ma vecchio nel pensiero e nell’azione politica.

10 ottobre 2015

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