Abruzzo 12-16 settembre 2015

Il Fucino

Il Fucino appare oggi come una grande e fertile pianura, coltivata e urbanizzata e non è facile leggervi il bacino di quello che era il terzo lago italiano. L’Abruzzo è terra di altopiani, per lo più carsici, dove l’acqua scompare per riapparire lontano e un lago capriccioso, capace di modificare notevolmente e rapidamente la propria superficie e il livello delle sue acque, devastando le rive e provocando il loro spopolamento, è di difficile comprensione. Eppure sin dai tempi di Giulio Cesare si pose il problema del suo prosciugamento e concretamente operò a questo fine l’imperatore Claudio, con la costruzione di un emissario artificiale, la cui funzionalità dipese nei secoli successivi da guerre, invasioni barbariche, rivoluzioni, conflitti sociali fino allo sforzo finale del duca Alessandro Torlonia, che, con il miraggio dell’acquisizione di migliaia di ettari, fece costruire un nuovo emissario e provvide alla sistemazione idraulica del bacino. Nel giugno 1875 il lago era completamente vuotato e il Torlonia risultò possessore assoluto di 497 appezzamenti di 25 ettari ciascuno, al netto degli ettari donati direttamente agli abitanti  e di quelli acquisiti dai comuni rivieraschi. I patti colonici con gli agricoltori provenienti dal Teramano, dal Chietino, dalle Marche e dalla Romagna si rivelarono subito duri e spietati, poco mitigati dalla povertà prodotta dalle due guerre mondiali. Ci volle la riforma agraria del 1951 per espropriare a nome dello Stato Italiano la proprietà Torlonia, riducendo il numero degli affittuari, fondando borgate residenziali rurali, impiantando uno zuccherificio e una cartiera. Il lago è oggi un fantasma, di cui rimane memoria scritta, ma gli occhi che si levano dai fogli di carta percepiscono al massimo la cornice delle montagne e colline circostanti, i campi, i filari degli alberi, i segni delle strade, una nebbiolina azzurra che alligna sulla piana. Il Fucinus lacus degli antichi non c’è più ed il suo nome risuona solo in quello di una città, Alba Fucens, di cui ormai si apprezzano solo i resti antichi, le mura poligonali, il Foro, la Basilica, le Terme, l’Anfiteatro, con un monumentale portale d’ingresso, i corridoi che immettono nell’arena e i parapetti che la contornano, a difesa degli spettatori dalle fiere.

Dall’alto delle gradinate si scorge in basso, lontano, luminoso, il miraggio del lago.

Scanno

Scanno ha un ingresso naturale trionfale, che non è il lago omonimo, ma sono le Gole del Sagittario. E’ una dirupatissima gola di pietra, che si allarga e si restringe, con la strada tagliata nella roccia, a strapiombo sul fondovalle, che fatica a guadagnare l’altura su cui sorge la cittadina. Ritrovo i bei portali barocchi, presenti in quasi tutte le case, non solo gentilizie, di cui conservavo il ricordo, dopo una visita di tanti anni fa. Così come ricordavo le sue stradine a gradini e la sobria architettura delle case. Non ho memoria della Matrice, la chiesa di Santa Maria della Valle e apprezzo la sua facciata tipica a coronamento orizzontale e il suo interno, barocco, ricco, elegante,  con graziose acquasantiere del 1700, confessionali finemente lavorati, una bella fonte battesimale in legno che fa da pari con un pulpito, anch’esso in legno. Così apprezzo una fontana in pietra con due archi romanici e un piccolo bassorilievo trecentesco, raffigurante una Annunciazione. Di fronte il Comune ha titolato la sua sala principale a Guido Calogero, ospite in esilio a Scanno, antifascista, sodale di Aldo Capitini, amico anche di mio padre.

Il verde intenso

Il verde intenso dei faggi, con appena alcuni cenni di ingiallimento a preannunciare la tempesta di colori dell’autunno ormai vicino, copre i versanti della Val di Sangro e larga parte del fondovalle, esclusi i pianori di Pescasseroli e di Opi, dove crescono nell’uno le case e gli alberghi e nell’altro le mucche e i cavalli. Questo contrasto tocca tutte le zone di quello che oggi è il Parco Nazionale d’Abruzzo, del Lazio e del Molise, dove gli abitati sembrano sgomitare per ampliarsi, riqualificarsi, mutare la propria pelle di insediamenti di gente dedita a una economia silvo pastorale, a favore di albergatori, ristoratori, gestori di agriturismi e di bed & breakfast. Tutto è fatto di pietra, le case, le chiese, i campanili, il selciato delle strade e delle scalinate, i monumenti, i riquadri delle finestre e i portali d’ingresso. Lo stesso intonaco, quando c’è, è di pietrisco bianco, un tutt’uno con il calcare. Non c’è un mattone, il solo laterizio è quello dei coppi dei tetti. Questa omogeneità affascina, sia da lontano, nel fitto concentrato di case intorno al campanile, luminoso a contrasto con il fondale verde dei boschi e dei pascoli, sia da vicino, all’interno del reticolo dei vicoli, nell’aprirsi della piazzette, nella gentilezza di balconi e portali. Ma questo è il vecchio, o il nuovo ristrutturato con gusto e attenzione, il nuovo o nuovissimo segue altri modelli, che vanno dalla capanna tirolese al resort, dall’albergo multipiano alla villetta familiare, dove tutto è intonaco, per di più colorato, il legno copre pareti e balconate, le vetrate sono gigantesche occhiaie, il parcheggio fa da contorno e da arredo, al posto degli orti e dei frutteti.  Tutto questo sembra confinato a Pescasseroli, a Villetta Barrea, a Barrea, mentre Civitella Alfedena e Opi sembrano mantenere le loro skyline e il loro storico impianto urbanistico.

Gli animali

Gli animali sono una presenza invisibile, suggerita più che dai depliant turistici, dalle foreste infinite, dalle cime rocciose lontane, dai grandi pascoli sommitali, oltre il limitare delle faggete. Ci vorrebbe un silenzio assoluto, lunghi appostamenti notturni, precoci levate mattutine e un buon binocolo per vedere il muoversi discreto dei camosci e dei cervi, il volo dell’aquila, la camminata determinata del lupo, il dondolare dell’orso marsicano. Invece questi e altri animali rimangono confinati nell’immaginario, al limite del fantastico, ma è un bene così, basta sapere che ci sono, che sono protetti e tutelati, che sopravvivono nonostante la loro fragilità, di fronte ad una civiltà umana violenta, predatrice, aggressiva. Una lunga escursione in Val Fondillo ci conferma in tutto questo ed anche la breve passeggiata lungo la ex provinciale asfaltata della Camosciara, un tempo concepita per urbanizzazioni e funivie, è oggi occasione di visioni alpine, in una alternanza di sole e ombra, quasi in assoluta solitudine, perché la stagione turistica è finita e sono fermi il trenino e le carrozze con i cavalli.

E’ invece vero e visibile il branco di cervi a Villetta Barrea, quasi domestici ormai, abituati al traffico e alla gente, elementi di attrazione quando pecorrono le strade della cittadina, brucano il prato e le mele degli antichi frutteti vicino alla statale, si riposano lungo gli argini del fiume Sangro.  Altrimenti si può ascoltare il bramito potente del capobranco, sul far della sera.

La Maiella

La Maiella è un nome mitico dell’Abruzzo, non una montagna di creste e strapiombi come il Gran Sasso, ma un ambiente selvatico, di alta montagna, un insieme compatto di più cime, quasi tutte vicine ai tremila metri, incavato da bei circhi glaciali. La attraversiamo in auto salendo da Roccaraso e poi, dopo aver lambito un suggestivo altopiano con una solitaria stazione ferroviaria, attraversato il Valico della Forchetta, raggiungiamo Campo di Giove. La strada continua in profondi valloni, sui fianchi boscati di lunghissime e solenni creste montane, fino a Caramanico Terme, in bella posizione sulla valle dell’Orfento, con un suggestivo impianto urbanistico e la bella chiesa romanico-ogivale di Santa Maria Maggiore, con sul fianco una sfilata di statuette quattrocentesche di santi e pastori e un campanile cuspidato, abbellito da archetti intrecciati e stemmi, sempre del quattrocento. E’ d’obbligo una sosta per un pranzo al ristorante Pesco Falcone, che si rivela luculliano per la ricca offerta di antipasti e di carne alla brace.

Lasciamo la Maiella nella valle del fiume Pescara per l’autostrada ed il ritorno a Villetta Barrea, via Pescina, Gioia dei Marsi, Pescasseroli.

Sulmona

Sulmona è una piacevolissima sorpresa, perché tutti ne avevamo un ricordo di città banale, quasi insignificante. La raggiungiamo attraversando il Piano delle Cinquemiglia, tutto verde, senza alberi, senza case, con la strada ottocentesca come unico segno umano, lambendo anche la Riserva Naturale del Monte Genzana e Alto Gizio. Solo la periferia conferma i pessimi ricordi, poi basta la vista di Porta Napoli, con l’originale bugnato di pietre decrescenti, adornato di rosoncini e bassorilievi di epoca romana, a sollevare le prime meraviglie, confermate subito dopo dal complesso dell’Annunziata, incredibile concentrato di stile ogivale, rinascimentale e barocco. Pilastri, colonne a candelabro, statue di santi, dottori della Chiesa, madonne, angeli adoranti,  tre portali, grandiosi, eleganti, sormontati da trifore e bifore, con gli stipiti ornati e affiancati da nicchie e riquadri di pietra traforata arricchiscono la  singolare e stupenda facciata. Anche la chiesa dell’Annunziata, distrutta ripetutamente dai terremoti fino alla sua versione attuale settecentesca, si fa apprezzare per la scenografia delle sue forme. Altra meraviglia, per l’originalità delle architetture, la facciata della chiesa di San Francesco della Scarpa, che conserva tracce notevoli della originaria costruzione angioina del 1290.

Seguiamo il corso Ovidio, nonostante un caldo afoso e asfissiante, in un’ora di chiusura per negozi, chiese e musei, fino all’elegante e rinascimentale  Fontana del Vecchio, addossata al pilone terminale dell’acquedotto duecentesco, che fa da cornice alla grande e scenografica Piazza Garibaldi. Nei pressi, su un’alta gradinata, una parte del fianco e dell’abside di San Francesco della Scarpa, con un grandioso portale romanico a sei colonne.

Abbiamo bisogno di una sosta e la troviamo nei tavolini di Piazza XX settembre, alle spalle della statua di Ovidio e circondati da palazzi nobiliari. Birra e pizza quadrata, cucinata e servita da cinesi, attuali proprietari dello storico caffè.

Il caldo e gli orari di chiusura di ogni luogo degno di visita ci impongono la partenza, ma sulla strada del ritorno, a pochi chilometri da Sulmona, c’è la Badia Morronese o di Santo Spirito, un grandioso fabbricato a pianta rettangolare, racchiudente tre cortili e cinto da un’alta muraglia. Il monastero, sede centrale dell’Ordine Celestino e, dopo il 1807, anche carcere di massima sicurezza per mafiosi e brigatisti e oggi sede della Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo, è in pieno contrasto con le prime costruzioni volute dall’anacoreta Pietro Angeleri da Isernia, poi papa con il nome di Celestino V. Le dimensioni colossali della chiesa, con una movimentata facciata concavo-convessa, dei cortili dei Platani e dei Nobili, del Refettorio e degli ambienti monastici del cinquecento e del seicento, sono totalmente estranei alla figura del fondatore, che viveva in una grotta, nelle balze rupestri dell’eremo di S.Onofrio, prima di essere eletto papa, per poi operare il “gran rifiuto”. Mi viene in mente una immediata analogia con la Basilica di Santa Maria degli Angeli e la chiesetta della Porziuncola, luogo di morte di San Francesco, dove le dimensioni degli edifici annichiliscono ogni altra costruzione e lo sfarzo dell’architettura è un’ ostentazione di ricchezza e potere.

La Forca d’Acero

La Forca d’Acero è il giusto commiato dal Parco d’Abruzzo (del Lazio e del Molise) perché la grande faggeta che la delimita è una monumentale porta d’accesso, non paragonabile per imponenza al Passo del Diavolo o alla valle del Giovenco. Sono faggi giganteschi, dalle grandi chiome verdi, senza  un sottobosco ai loro piedi, perché il terreno è pulito, rossastro per le foglie cadute, che rimanda giochi di luce quando il sole riesce  a penetrare. Alle spalle il digradare verso il Sangro, i  paesi di pietra, i boschi, gli animali invisibili. Davanti un altro digradare, con altri boschi, altri alberi, altri paesi. Nessun animale.

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