Londra 1 – 8 luglio 2015

Mercoledì 1° luglio

L’appartamento Crescent Cromwell  appare a me, Anna Maria, Paolo e Mariella, come un porto sicuro dopo molte ore di viaggio, in treno dall’aeroporto di Stansed, in metropolitana alla zona di South Kensington e dopo una lunga ricerca  per le chiavi, trovate, sulla base di meticolose indicazioni scritte, in una cassettina dotata di codice numerico, dietro un muretto, nei pressi di un garage dalla porta verde e dopo un blocco condominiale in Barton Road. Una vera e propria caccia al tesoro.

Le stanze luminose, nonostante il piano seminterrato di un edificio edoardiano, con tanto di colonne e ricche cancellate, il mobilio moderno e confortevole e la piacevole frescura rispetto ai quasi 35° dell’esterno, ci sembrano il giusto premio dopo una lunga marcia di avvicinamento che ci ha dimostrato l’immensità di Londra e come possa avere in estate anche una temperatura africana.

Riidratati, rinfrescati e di nuovo in pace con noi stessi e con l’Inghilterra, riempiamo il frigorifero di generi di prima necessità, approfittando di un vicino supermercato Tesco e lo stomaco in una hamburgheria della catena Byron, nella vivace Kensington High Street.

L’andata e il ritorno a piedi ci permettono di apprezzare la tranquillità e la piacevolezza di un ricco quartiere londinese, vicino a grandi parchi e  separato dal resto della città dalla trafficatissima Cromwell Road. Case basse ottenute dalla ristrutturazioni di terraces popolari, assi bianchissimi di residenze edoardiane con scale di ingresso colonnate, blocchi ottocenteschi di mattoncini arancione, strade ampie e poco trafficate, su cui si affacciano pertinenze per auto di alta cilindrata o giardini con alberi, anche di alto fusto e con siepi, anche di agrifoglio.

Giovedì 2 luglio

Di nuovo sottoterra nel dedalo metropolitano, per riemergere nell’avveniristica scenografia teatrale dell’”Isola dei cani”, più precisamente il Canary Wharf, un’ansa del Tamigi dove un tempo i West India Docks immagazzinavano merce esogena, in particolare mogano, rum, banane, zucchero, pomodori provenienti dalle Canarie. E’ oggi un quartiere d’affari dominato da una selva di grattacieli in vetro e acciaio, dove lavorano migliaia di pendolari e con nelle viscere ai loro piedi un vastissimo centro commerciale, articolato in bivi e quadrivi che riflettono l’urbanistica esterna. Il sottosuolo si apre anche a stazioni pluripiano, simili a grandi cattedrali, con relative travature e colonne di supporto in cemento e acciaio, frequentate da una massa di uomini e donne in perenne movimento, verso il lavoro, il riposo, i piaceri, gli obblighi.

Altra città, altre cattedrali, altre genti in Southwark, dove cerchiamo subito The Shard, il grattacielo di Renzo Piano, il più alto di Londra e della Gran Bretagna. E’ una torre acuminata di cemento, rivestita interamente di vetro, svettante su tutto, inconfondibile. Non lontano, in aperta contraddizione, la Sothwark Cathedral, duecentesca, sopravvissuta miracolosamente alle ristrutturazioni ottocentesche legate al nuovo ponte e alla ferrovia e ai pesanti interventi vittoriani di restauro.

Il vicino Boraough Market, sotto le arcate della ferrovia tra High Street e la cattedrale, è un paradiso gastronomico dove decine di bancarelle vendono cibo da strada e, sotto un capannone di ferro battuto, tutta l’ortofrutta del mondo. La necessità di una pausa ci fa mangiare fish and chips e bere un’ottima birra artigianale in un locale della Catena Fish.

Il lungotamigi è piacevole, con una sky line della riva sinistra dominata dalla cupola di St Paul e dai grattacieli della City. La vista si fa completa anche della riva destra, dominata dall’austero edificio in mattoni della ex centrale elettrica a nafta, oggi Tate Gallery e da The Shard, nell’attraversare il Millennium Bridge, in acciaio inossidabile, l’unico totalmente pedonabile della città.

La cattedrale di St Paul non ci invita al suo interno e preferiamo raggiungere la vicina e suggestiva Paternoster Square, chiusa da recenti edifici post classici, accessibile dalla antica  e trionfante Temple Bar. E’ tempo di Wimbleton e un grande schermo, davanti a sdraio e seggiole, proietta in diretta il torneo di tennis, anche nella terrazza di un vicino e modernissimo edificio, da dove preferiamo gustare una panoramica a 180° di Londra.

Ma è la Bank, il cuore finanziario della City, la vera sorpresa, perché sono bastati pochi anni perché nascessero, a poca distanza dalla Bank of England, dalla Mansion House e dal Royal Exchange, edifici incredibili per la portata architettonica e il valore simbolico, quale il Lloyd’s Building, dell’architetto Rogers, che richiama non a caso il Centre Pompidou di Parigi, con la differenza che l’insieme di tubi di acciaio, di ascensori esterni in vetro, di intelaiature di metallo sono proiettate tutte in una dimensione verticale. Ma anche il NatWest Town, il Walkie Talkie, il The Pinnacle, il The Cheesegrater, ostentano anch’essi una grandiosità verticale, anche più lineare, quasi innaturale, sia per l’altezza (sopra i 200 metri) sia per la forma, che suggerisce i loro affettuosi e ironici nomignoli.

Fa quasi tenerezza il Leandenthall Market, un elegante capannone vittoriano in ghisa, riccamente dipinto in panna e marrone, con sottostanti negozi e pub, affollatissimi per l’aperitivo di prima serata, soprattutto di uomini in completo blu e di donne sobriamente vestite. Sono gli impiegati fuoriusciti da quelle torri per celebrare la fine giornata lavorativa.

Venerdì 3 luglio

E’ una buona idea quella di Mariella di visitare Somerset House, perché Courtauld Gallery contiene una incredibile collezione di opere d’arte, non sterminata come in altri musei londinesi e per questo più a misura d’uomo, se per uomo si intende un turista e non uno studioso. Nonostante  grandi opere del rinascimento italiano, compreso il Beato Angelico e Botticelli, nonché i fiamminghi e poi Rubens e anche Goya, è la pittura francese dell’ottocento che, come sempre, mi attira e mi intriga. Già l’esplosione di luce in uno struggente acquarello di Turner, una spiaggia piatta al crepuscolo, drammatizzata da un cane che ulula, aveva anticipato il mio incantamento, per confermarlo prima con Manet con la Colazione sull’erba, la Riva della Senna ad Argenteuil ma soprattutto con il Bar alle Folies-Bergère e poi il treno di Pissarro e gli incredibili giochi di luce di Monet nell’Autunno ad Argenteuil e in Antibes. Come se non bastasse ci sono le ballerine di Degas e il mantra della Montagne Sainte Victoire di Cézanne con anche l’incredibile Giocatori di carte. Ma c’è anche Gauguin, con una spazialità che si accompagna a colori solenni e maestosi, sia quando rappresenta il lavoro contadino in Bretagna, sia quando descrive corpi di donne tahitiane, enigmatiche e conturbanti. Le mie ultime energie si consumano, troppo frettolosamente, su Van Gogh, con il suo celebre autoritratto con l’orecchio bendato, sulla piccola Dogana di Rousseau e sull’intimità borghese di una celebre ballerina di Toulouse-Lautrec. Un ultimo sguardo incantato sul sonno sensuale e impudico di una donna nuda e seduta di Modigliani.

Somerset House è anche un grandioso palazzo settecentesco sul lungofiume, quattro ali di granito, nate per ospitare uffici governativi, con al centro un grande cortile animato da 55 cannelle che spruzzano acqua direttamente dal pavimento. La temperatura si è notevolmente abbassata rispetto al primo giorno, ma ciò non impedisce ad un bambino di correre urlando di falsa paura tra gli zampilli, inseguito da una madre, altrettanto divertita.

Covent Garden non è lontana, vivacissima di giovani, di attori e musicisti di strada, ovviamente di turisti, richiamati non più dal mercato ortofrutticolo, che era ospitato in una struttura vittoriana, porticata e ricoperta di vetro, ma dai tanti caffè, ristoranti, negozi e dalla vita di strada, soprattutto nella piazza davanti alla chiesa di St.Paul, conosciuta come la chiesa degli attori. Anche per noi è l’occasione di una sosta e per riflettere di come questa sia ancora un’altra Londra.

Long Acre è una delle strade dello shopping della zona di Covent Garden e noi la percorriamo tra una folla determinata nel muoversi velocemente verso le proprie mete, che mal si concilia con chi, come me, cammina con il naso in aria e scruta particolari architettonici, vetrine originali, offerte commerciali inusitate. E’ la strada che porta ad una grande piazza pubblica, attrazione turistica e sede di manifestazioni politiche inglesi: Trafalgar Square. Al di là della sua dimensione scenografica, non sono particolarmente colpito da quello che sembra essere il baricentro simbolico e urbanistico della città. Soprattutto non sono per niente interessato a Horatio Nelson, un personaggio odioso per la sua venerazione per il re e in generale per la monarchia, il concepire la fede repubblicana e l’ateismo come crimini, il suo odio verso i francesi, considerati molli, effeminati, cattolici e papisti, militarmente mediocri ma soprattutto per il suo cinico comportamento nei confronti della Rivoluzione Partenopea, quando rinnegò gli accordi di resa dei repubblicani,  assecondò e incoraggiò la vendetta feroce del debole re Ferdinando e volle che Francesco Caracciolo fosse impiccato nella sua nave ammiraglia.

Ma a Trafalgar Square c’è la National Gallery.

E’ praticamente impossibile vedere e apprezzare quasi mille quadri esposti, per cui la mia scelta è di aggirarmi rilassato nelle grandi sale, compiaciuto soprattutto dal contesto architettonico, pronto a seguire casualmente le suggestioni di un ritratto o di un paesaggio o l’equilibrio di una pala d’altare. Così non colgo il nostro Rinascimento se non nel riposo sensuale di Venere dopo l’amore con Marte di Botticelli o nell’incredibile insieme di armi, cavalli, cavalieri, guerrieri e caduti della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Riesco ad apprezzare il sofisticato dipinto di Jan van Eyck sui coniugi Arnolfini e la coloratissima Famiglia di Dario ai piedi di Alessandro del Veronese. C’è anche papa Giulio di Raffaello e la Vergine delle Rocce di Leonardo. Invece cerco con determinazione Caravaggio e lo trovo sia nel Ragazzo morso dal ramarro ma soprattutto nella Cena ad Emmaus, dove svanisce ogni pretesto o pretesa religiosa, per esaltare l’intimità e il forte legame tra uomini e non tra santi ed eletti. Avrei voluto più tempo ed energia mentale per apprezzare di più Turner, ma quel poco che mi rimane è tutto per gli impressionisti: Manet, soprattutto l’incompiuta e riassemblata Esecuzione di Massimiliano, Monet con il Tamigi a Westmister e la Gare Saint Lazare e poi Cézanne. Van Gogh subisce lo stesso destino della Gioconda al Louvre: i suoi splendidi girasoli e la metaforica sedia impagliata sono aggrediti da una folla ossessionata nel fotografare e compatta nel guadagnare la prima fila.

La National Gallery va riprogrammata e rivisitata, addirittura andrebbe frequentata. Vale da sola il viaggio.

Sabato 4 luglio

La metropolitana ci sbarca a Piccadilly Circus, dove non trovo niente di pittoresco, se non un traffico infernale che circonda la fontana con l’arciere in alluminio che è comunemente considerato Eros, mentre in realtà sembra essere il fratello Anteros, il dio dell’amore non ricambiato. Invece Regent Street mi appare come un corso trionfale, dove più che dai negozi, sono colpito dalla monumentalità ininterrotta di questa via, nel primo tratto anche con un andamento semicircolare. Oxford Street, che intercettiamo a Oxford Circus è invece molto meno pretenziosa dal punto di vista architettonico e molto più affollata, anche perché è la principale arteria commerciale di Londra e l’offerta di merci è varia e differenziata. Ciò non toglie che alcuni edifici commerciali abbiano le dimensioni e la monumentalità di un ministero.

Siamo comunque vicini a Soho e lì andiamo per cercare meno congestione metropolitana e la troviamo nella Soho Square, uno spazio verde, circondato da palazzi molto eterogenei tra loro. Ma vi è tranquillità e frescura e un piccolo pub per la sosta. Non cediamo ad altri peccati né ricerchiamo ritrovi letterari o musicali o cinematografici. E’ un’altra Londra la cui visita va programmata in un’altra occasione e io e Anna Maria cediamo invece al richiamo del vicino British Museum.  

E’ uno dei più grandi musei del mondo ed anche qui conviene perdersi. La corte interna del maestoso edificio neoclassico è già da sola uno spettacolo, una grande piazza tutta in pietra, coperta da un tetto arcuato di vetro e acciaio ed è altrettanto spettacolare la ex sala di lettura della British Library, oggi spazio espositivo. Mi intriga pensare che in una di queste sale Karl Marx abbia scritto il Capitale. E’ d’obbligo ricercare le meraviglia dell’età antica, a partire dalla stele di Rosetta fino alle sculture e ai rilievi assiri, ma la raccolta romano etrusca è sterminata, con meravigliosi lavori di oreficeria, vasi a figure rosse e a figure nere, statuine realistiche ed espressive come settecenteschi biscuit. Prima di rimanere sfiancati ci dirigiamo verso i fregi del Partenone. Tutto è in movimento, cavalli e cavalieri in un epica cavalcata e l’impressionante processione dei buoi condotti al sacrificio, una folla di personaggi che emerge dai confini dei riquadri marmorei, i musi degli animali e i profili degli uomini sembrano a tutto tondo a sfidare l’esiguità del rilievo. Anche le statue del frontone si muovono ma solo grazie alla flessibilità ed elasticità delle vesti, essendo acefale e prive quasi del tutto di arti. Gli altri monumenti, la Tomba delle Arpie, il Monumento delle Nereidi e la Tomba di Papaya, sembrano completare un quadro già straordinario, ma al piano superiore la meraviglia è massima grazie a pochi ma imponenti frammenti di marmo. E’ qui che il mio occhio che scorre su gigantesche amazzoni, su un cavallo grande come un elefante, su un enorme tamburo di colonna scolpito, viene catturato da una piccola testa di bronzo alata per scatenare una sensazione di dejà vu. E’ la copia romana di un originale greco, raffigurante il dio del sonno Hipnos e proviene da Civitella d’Arna. La sua foto compare nella copertina di un volume prodotto dall’azienda Autonoma di Turismo dedicato ai tesori artistici di Perugia in Italia e nel mondo, che conservo nella biblioteca di famiglia.

Siamo ormai appagati e fendendo la folla di visitatori raggiungiamo l’esterno, per ritrovare altra folla nella metropolitana e ancora in Oxford Street. Ci ha punto vaghezza di entrare da Selfridges, il secondo negozio più grande di Londra,  per saggiarne le dimensioni, valutare l’offerta, contemplare le vetrine, che sono performance notevoli di design, non certo per comprare.

C’è ancora tempo e sole per raggiungere il vicino Marble Arch e da lì attraversare Hyde Park fino a The Serpentine, invidiando ai londinesi questi grandi spazi erbosi, ombreggiati a tratti da platani secolari, luogo di ricreazione, di giochi, di relax.

Domenica 5 luglio

La Torre di Londra è in realtà un castello del XIV secolo con sedici torri ed il paragone corre al Castle di Edinburgo. Entrambi palazzi fortezza, caserme, prigioni, casseforti di scettri e insegne reali, entrambi scenari di efferati assassinii, tradimenti, torture, esecuzioni. Ma la London Tower non incombe sulla città come un nido d’aquila, caratterizzandone lo sky line, non ha gli edifici imponenti e le spesse mura delle caserme, il labirinto di meandri e di sotterranei del Castle scozzese che, da soli, evocano la tragicità dei fatti che vi si svolsero, senza la coreografia quasi cinematografica londinese, comprese scimmie finte e poveri corvi imperiali miseramente ingabbiati. Anche il maestoso e suggestivo Tower Bridge addolcisce il contesto circostante, assorbendo l’attenzione dei visitatori, attratti dal riconoscere quello che è uno dei simboli più famosi di Londra, senza però conoscere gli aspetti tecnologici di una delle imprese ingegneristiche più importanti dell’ottocento londinese.

E’ comunque una tappa d’obbligo per i turisti, come noi siamo, così come è d’obbligo il percorso su battello del Tamigi, nel tratto che va dal Tower Bridge a Westminster. E’ un comodo modo di rivedere le principali emergenze urbanistiche della città e per capire come il fiume sia stato il costante elemento di riferimento per la nascita e lo sviluppo di Londra.

La zona del Parlamento non è cosa da domenica pomeriggio e il parco di Kensington ci appare una meta più desiderabile, anche se al prezzo di una lunga scarrozzata in metropolitana. Imbocchiamo tardi il suo green e i suoi platani, persi un una fettuccia stradale ai margini, ricca di eleganti residenze d’ambasciata e poi il tempo è nuvoloso, una cappa umida ci appesantisce i movimenti e il palazzo reale di Kensington ci appare modesto nelle proporzioni e nello stile architettonico, nonostante sembra essere il luogo delle nascite e delle morti di molti reali, nonché residenza di rampolli e di duchi e duchesse di Kent. Il ritorno a casa è per la bella Kensigton Hight Street e per l’elegante quartiere sottostante.

Lunedì 6 luglio

Ci separiamo dai nostri amici, che si dedicano allo shopping, mentre io e Anna Maria insistiamo su un altro museo, il Victoria and Albert Museum. E’ un altro grande edificio che si affianca a molte altre importanti istituzioni museali e college, quali il Natural History Museum, il Royal Albert Hall, uno scenografico uditorio in mattoni rossi, terracotta e marmi con una cupola in ferro e cristallo, il Royal College of Music,  la Royal Geographical Society, l’Imperial College. E’ un interessante concentrato urbanistico, marcatamente vittoriano, segnato dal connubio tra la Scienza e le Arti, che si è poi esteso a tutta l’area circostante di South Kensington, facendone un’altra Londra, forse la più esclusiva.

Il V&A è considerato il più grande museo di arti applicate del mondo e quindi applichiamo un rigido criterio di visita: selezioniamo drasticamente quello che ci sembra indispensabile vedere, almeno per questa prima volta. Alla curiosità lasciamo la luminosa corte interna, divertiti da una schiera di piccolissimi anatroccoli che si aggirano per niente intimoriti tra i tavolini del caffè alla ricerca di molliche. Tralasciamo quindi le immense sale (qui tutto è immenso, le sale sono come cattedrali collegate da lunghi corridoi e baipassate in alto da camminamenti solenni come matronei) dedicate all’Asia meridionale, all’islam, alla Cina e Giappone e veniamo attirati dalle sale dei gessi, in cui calchi di opere famosissime si affollano vicini e a grandezza naturale, compresa la colonna Traiana, tagliata a metà. La scultura fa da padrona in altre sale e corridoi, in particolare quella italiana, con un pezzo del Bernini e un altro del Canova, ma anche Rodin e in un galleria appositamente dedicata al Rinascimento, una immensa grata in marmo e alabastro, una serie di pale d’altare e un’intera cappella fiorentina. Lì c’è anche un Perugino, proveniente dalla chiesa di Santa Maria dei Servi di Perugia.

La pittura è altrove, soprattutto nelle British Galleries, ma puntiamo diritti ai Cartoni di Raffaello, ospitati anch’essi in una specie di basilica, che sembra ancora più immensa perché vuota al suo interno e alle pareti i sette grandi dipinti a tempera del pittore urbinate, cartoni preparatori di arazzi voluti dal papa Leone X per la Cappella Sistina. In fondo un immenso retablo spagnolo, una pala d’altare rilucente d’oro, dedicata a San Giorgio, di cui nei pannelli laterali, sono descritte le infinite pene sopportate dal suo corpo nelle innumerevoli torture a cui fu sottoposto. Dalla parte opposta, in alto, sopra un portale rinascimentale, in una patetica solitudine, l’ultima opera del Perugino, una natività dipinta a Fontignano poco prima della morte.

In ultimo ci dedichiamo ad uno sfizio: cerchiamo con fatica e la troviamo con l’aiuto di un custode la collezione del XX secolo, che troviamo pressoché deserta di visitatori, ma interessantissima per gli artefatti di grande qualità del miglior design del ‘900, a partire dall’arredamento, dai tessuti, dalle stoviglie. Non mancano la caffettiera dell’Alessi e la macchina da scrivere Valentina dell’Olivetti.

E’ tempo di relax e ce lo concediamo in un vicino ristorante libanese.

Abbiamo appuntamento con Paolo e Mariella per visitare Westminster Abbey, che raggiungiamo via metropolitana, ma la lunga fila per l’ingresso e le poche ore per la visita, scoraggia i nostri amici. Di nuovo separati, anche noi, dopo un’ulteriore e sconfortante attesa, decidiamo di dedicare all’abbazia un prossimo viaggio a Londra e raggiungiamo Trafalgar Square attraverso lo scenografica Whitehall. Il tempo è afoso e il St James Park è invitante con i suoi platani e il grande lago, ma sentiamo comunque il bisogno di rilassarci, distratti più dalle gente che dalle anatre. Niente di meglio di Covent Garden, per una pinta di birra, un caffè, un dolce ai tavolini del Pain Quotidien, già apprezzato l’altra volta. Siamo alla fine del viaggio e raggiungiamo l’ultima meta: la stazione ferroviaria di St. Pancras. E’ curioso leggere che in origine era il Midland Grand Hotel, un capriccioso albergo vittoriano, andato in rovina per non aver coniugato il prestigio con i confort moderni. Oggi è una stazione pluriplano, con i treni che arrivano e partono per Parigi, con due grandi orologi appesi alla grande tettoia in vetro e acciaio ed una bizzarra statua che rappresenta il saluto intimo e affettuoso di un uomo e una donna, grandi quasi cinque volte il normale.

Anche noi da lì salutiamo Londra.

Martedì 7 luglio

Dobbiamo restituire l’appartamento per le dieci e trenta della mattina ed il volo molto mattiniero di mercoledì ci impone un pernottamento presso l’aeroporto di Stansed. Pertanto, fatti bagagli, in metropolitana e poi in treno raggiungiamo il Rodisson Blu Hotel, a due passi dalle piste. Abbiamo un intero pomeriggio libero e decidiamo di passarlo a Cambridge, a cinquanta minuti di treno. E’ il passaggio da una immensa metropoli ad una piccola città, fortemente caratterizzata da college e università secolari. E’ tutto a misura d’uomo, l’aria è fresca e ventilata, il King’s College, quattrocentesco, ci offre le sobrie facciate dei suoi palazzi, il suo vasto cortile interno, il grande prato che si estende verso il fiume Cam, ma soprattutto la bellissima cappella, con una elegantissima volta a ventaglio. La lunga navata è divisa tra la sobria anticappella e l’area del coro, con stalli riccamente ornati, illuminata da una grande vetrata nella parete di fondo, con sotto l’Adorazione dei Magi di Rubens, dono del 1961.

L’atmosfera diventa idilliaca lungo le rive del fiume Cam, con ponticelli di pietra che collegano da una parte la riva urbanizzata e dall’altra ampi spazi verdi con alberature secolari. Il fiume è animato da una flottiglia di barconi a fondo piatto, ciascuno gestito da un solo rematore munito di un unico lungo palo, spesso uno studente, che porta a pagamento comitive di giovani allegri ed esuberanti.

La chiusura tutta britannica di ogni sito artistico e negozio alle 6 pm ci impone un ritorno precoce a Stansed, per l’ultima notte in Inghilterra.

 

 

   

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