28 giugno 2015 Mashrek incandescente

La paura e il senso d’impotenza che si registra oggi nell’Europa della Troika dopo i criminali attentati in Francia, in Tunisia e in Kuwait hanno origine nella dissennata politica dell’occidente nel Mashrek, cioè l’insieme dei paesi ad est del Cairo. L’aver da sempre garantito sostegno e alleanze a regimi feudali e totalitari, l’aver scardinato il regime irakeno, smantellandone lo stato e l’amministrazione con la penalizzazione della componente sunnita, l’aver destabilizzato a forza di bombardamenti la Libia di Gheddafi, l’aver provocato e sostenuto la guerra civile in Siria, con più della metà di quel paese privo di un governo e di una amministrazione, l’aver favorito l’afflusso di armi, di combattenti e di aiuti, tramite la Turchia, ai combattenti salafiti, ha di fatto ridisegnato la geopolitica della regione, favorendo pretese egemoniche, sempre presenti, ma contenute da una pluralità di stati, che per quanto disegnati dal colonialismo e dall’imperialismo occidentale, hanno di fatto garantito nel passato un equilibrio, precario, ma stabile.

I bombardamenti contro lo Yemen da parte di nove paesi arabi, guidati dall’Arabia Saudita, per contrastare l’avanzata dei miliziani houthi, adepti dello zaidismo, un ramo dell’islam sciita, insorti in armi per protestare contro un progetto di stato federale proposto dal presidente Abd Rabbih Mansur Hadi, ha reso evidente la volontà di Riyad di garantirsi, quale leader del mondo sunnita, l’egemonia su tutto il Mashrek, a scapito dell’altra grande potenza, l’Iran sciita. Gli Stati Uniti, pur contrari ufficialmente alla  soluzione militare nello Yemen, ma protettori da sempre dell’Arabia Saudita, partecipano indirettamente al conflitto fornendo le informazioni raccolte dai loro droni sugli obiettivi da bombardare e azioni via mare per impedire l’approvvigionamento di armi alle milizie houthi, allo scopo di impedire un intervento via terra  dei soldati sauditi, di cui temono una clamorosa disfatta, già avvenuta nel 2009, che li costringerebbe ad intervenire direttamente con proprie truppe via terra. Della coalizione fa parte l’Egitto ma non la Turchia e neanche il Pakistan, paese mussulmano a maggioranza sunnita, alleato militare di lunga data dell’Arabia Saudita, con cui ha condiviso nel passato l’ostilità all’URSS e all’India e ha cooperato con Riyad durante la prima guerra d’Afghanistan (1979-1989), disposto oggi ad intervenire solo nel caso di una minaccia all’integrità territoriale dell’Arabia Saudita.

L’intervento militare saudita nello Yemen, preceduto da uno analogo nel 2011 in Bahreim, allo scopo di reprimere una rivolta popolare prevalentemente sciita, non sembra limitarsi a ristabilire il potere del presidente Mansur Hadi, ma punta ad affermare l’egemonia saudita in altre parti del medio oriente.

Un altro avversario non dichiarato dell’Arabia Saudita è l’Iraq, ormai sotto il controllo di un potere centrale di fede sciita, costretto per questo ad una politica di equidistanza tra Stati Uniti e Iran, suoi alleati di fatto contro l’Isis, che ha destabilizzato l’intera area mesopotamica, non senza il contributo finanziario e il sostegno dei paesi a maggioranza sunnita. Altro nemico, questo sì ufficiale, è la Siria, precipitata in una tragica guerra civile, dove l’ampio ed eterogeneo fronte di oppositori al regime di Bashar Assad, di fede alauita, che controlla ormai solo il 40% del paese, comprende oltre le armate filooccidentali, anche Al-Nusra, ramo siriano di al Qaeda e l’Isis, cui non manca il sostegno  delle  monarchie del Golfo.  La forte presenza in Libano degli Hezbollah, aperti e impegnati sostenitori di Assad, fa sì che anche in questo scenario si possano propagare le mire espansionistiche ed egemoniche dell’Arabia Saudita, minando i fragilissimi equilibri del Paese dei Cedri.

Il regime saudita agisce come negli anni sessanta del secolo scorso, quando la sua leadership era minacciata dalle forze nasseriste e baathiste, sostanzialmente laiche e panarabe.

E’ in grado l’Arabia Saudita di garantirsi questa egemonia, ha un apparato statale coeso, unitario in grado di sostenere una politica estera coerente e non frammentaria, ha risorse economiche e finanziarie in misura tale da sostenere questo enorme sforzo, ha un modello di sovranità popolare che garantisca il pieno consenso popolare e dei ceti e gruppi sociali esterni alla famiglia reale? O tutto questo è appannaggio dell’Iran, che ha anche riallacciato legami con gli Stati Uniti e l’Occidente, che gode dell’appoggio della Russia, con cui ha contratti e forniture, che può vantarsi presso il mondo arabo di non aver invaso nessun paese da 250 anni a questa parte ?

Il Cairo, Damasco e Baghdad non sono più le potenze regionali egemoni e gli Stati Uniti non sono più la potenza incontestata della regione mediorientale, interessati oggi non più alla occupazione di spazi territoriali e luoghi fisici, ma al controllo dei mercati finanziari e delle vie commerciali e quindi a riformulare la loro politica.

La partita è quindi tra Riyad e Tehran, che sembrano protagonisti di una guerra di religione, che punta a ridefinire su base confessionale le stesse frontiere geografiche e con esse nazioni, regimi politici, apparati statali. E’ vero che in Medio Oriente la rivoluzione ha assunto come proprio codice quello religioso ed i propri valori non derivano più dal Secolo dei Lumi ma dalle sure del Corano, ma è anche vero che le cosiddette primavere arabe hanno riaperto, senza ancora una soluzione credibile se non in Tunisia, la questione sociale e con essa le questioni nodali dei diritti civili, della partecipazione popolare al governo, la distinzione e il controllo dei poteri.

Né Riyad né Teheran hanno intenzione di attingere alla loro reale legittimità tradizionale e alle loro risorse umane e finanziarie per rispondere alle aspirazioni popolari delle loro società. Sono invece orientate a mantenere intatte le strutture di potere, esportando le contraddizioni, per cementare lo status quo oligarchico e feudale all’interno di nuove frontiere, che si illudono di poter controllare con la forza militare e la violenza dei propri regimi.

Su questi conflitti si è inserito L’Isis oggi Osi, sfruttando i vuoti di potere, le contraddizioni occidentali, la subalternità dei regimi arabi, predicando un jihadismo mondiale, un pensiero unico, letteralista e rigorista, nel quale l’umma, la comunità mussulmana, trascende il concetto di stato, nazione, cultura, lingua.

Insediatosi in un territorio, privo ormai di un governo e di una amministrazione, ricco di riferimenti storici, ha dotato il movimento di una base geografica e militare. Ne ha distrutto l’ordine precedente e ha insediato al suo posto il califfato, che diventa un simbolo, una identità, un santuario per attirare adepti e combattenti, disposti a vivere in una comunità austera, con l’eliminazione di ogni traccia che non provenga dall’Islam sunnita, applicato con violenza e senza nessuna concessione né tolleranza. Le altre manifestazioni religiose, compresi i sunniti moderati e gli sciiti, considerate empie ed inferiori, sono private di cittadinanza e diritti, in molti casi del diritto di esistere.

La sua politica è la pratica del terrore, spinto all’estremo, mediatizzato, organizzato, quotidianamente applicato. E’ una radicalità estrema finalizzata a rafforzare la coesione interna, a garantire il controllo sociale, a rafforzare le alleanze e ad attirare adepti, anche da paesi non arabi.

Le divisioni, le pretese egemoniche, il radicalismo religioso, il fanatismo ideologico, l’indifferenza e il cinismo dell’occidente concorreranno ad alimentare ancora per molto il fuoco che divampa nel Mashrek.

28 giugno 2015

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