20 giugno 2015 Ricominciare da tre

L’indagine Mafia Capitale e i tanti scandali che interessano ogni parte d’Italia, che si conferma come uno dei paesi più corrotti d’Europa, costringe l’opinione pubblica, totalmente condizionata dai mass media, a fare i conti quotidianamente con la questione cosiddetta morale. Ogni politico, ogni amministratore pubblico, ogni decisore viene (giustamente) pesato e valutato in quanto ad onestà, impegno disinteressato, rigore morale, stile di vita. E su questo viene condannato o assolto, non necessariamente in sede giudiziaria. Nessun accenno alle sue capacità politiche, alle sue competenze amministrative, all’essere interprete di domande e aspettative diffuse, al conoscere vissuti e contraddizioni sociali. Siamo fermi ai prerequisiti, alle precondizioni, ai presupposti dell’azione politica e dell’impegno civile.

In altri tempi questo era dato per scontato e negli  schieramenti politici di sinistra (non tutti) il reclutamento, la formazione e la selezione del personale politico teneva alla larga filibustieri, faccendieri, nullafacenti, pregiudicati. L’impegno era pesante, a scapito della vita personale, non compensato da retribuzioni o parcelle milionarie, il premio era il rispetto e la stima e l’eventuale scalata nella gerarchia, sempre però sotto il controllo attento e spietato della organizzazione politica di cui si era militanti. L’impegno amministrativo era vissuto dai più come una scelta obbligata, non voluta, dove non ci si cimentava più con la forza delle idee e della passione civile, ma con i vincoli di bilancio, la pochezza delle risorse, i tanti interessi “particolari” di una città, di una provincia, di una regione. Valeva comunque, come regola non scritta ma rispettata fedelmente, il detto che “la moglie di Cesare non solo non deve essere colpevole ma non deve essere neanche sospettata”. Non solo l’amministratore pubblico doveva essere una persona al di sopra di ogni sospetto, ma anche i suoi congiunti e le persone a lui più vicine.

Oggi l’impegno amministrativo è il principale obiettivo di chi aderisce ad una forza politica e la militanza derubricata ad un semplice atto burocratico, senza impegni né vincoli. Non importa che le assemblee elettive abbiamo perso autorevolezza e che il potere decisionale sia nelle mani di pochi se non di uno, l’importante è essere ammessi nel ceto politico, considerato fonte di prestigio personale, di privilegio, di promozione sociale e perché no, anche di arricchimento, con mezzi leciti e illeciti. Quello che vale è un consistente pacchetto elettorale, segno spesso di clientele e di favoritismi, una totale spregiudicatezza ideologica, che annulla ogni principio di identità e appartenenza politica, nessuna onestà intellettuale, considerata ostacolo ai machiavellismi e alle alchimie che dominano oggi il governo della cosa pubblica.

La parola d’ordine di chi si oppone a questo ceto politico è “onestà”, la pratica invocata è “pulizia”, l’obbiettivo è “il risanamento”, lo strumento è “la trasparenza”.

Tutto giusto. Tutto condivisibile. Ma siamo all’anno zero della politica, se non alla prepolitica, con il ritorno del soggettivismo virtuoso, con la rivalutazione della generosità, con la speranza o l’illusione di una panacea miracolosa.

Oppure si riparte da tre.

Stabiliti i prerequisiti morali, dettate le regole di comportamento, si deve ripartire dalle capacità, dalle competenze, dai saperi.

Una città, un territorio, una comunità sono oggi aggregati complessi che vanno capiti e interpretati, vanno letti i bisogni, accolte le domande e soddisfatte le aspettative di gruppi e classi sociali con interessi molteplici e contraddittori tra loro. La scelta delle priorità e la mediazione per raggiungerle sono obbligatorie. Bisogna possedere categorie interpretative, gestire strumenti di indagine e valutazione e (non in alternativa) avere capacità di ascolto e di responsabilizzazione di chi parla o urla o protesta. Bisogna essere capaci di lavorare in equipe, valorizzando le competenze di tutti, distribuendo le responsabilità, in un processo di emancipazione collettiva, premessa ad una vera partecipazione. Bisogna avere una idea di città, se si è sindaci e assessori e consiglieri comunali, una idea di regione se si è governatori e membri di giunta e di consiglio regionale, un’idea di paese e di comunità internazionale se si è ministri e parlamentari. Un’idea che nasce dallo studio “matto e disperatissimo”, dal confronto con tutti, da un’ideologia di riferimento, dall’esperienza professionale e esistenziale, dalla frequentazione costante, non episodica, degli spazi sociali e culturali, dall’appartenenza ad associazioni di liberi ed uguali.

Vuol dire essere politici, protagonisti di un’arte e di una scienza chiamata politica, non solo missionari, non solo persone virtuose, non solo dilettanti allo sbaraglio.

20 giugno 2015

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