La presenza ebraica a Perugia è testimoniata nel 1262 da un decreto di espulsione firmato dai magistrati della città, per contrastare il prestito ad interesse, divenuto rilevante a seguito delle migrazioni nei decenni precedenti di prestatori romani verso il nord della penisola. Ciò non impedì nei secoli XIII e XIV che l’Umbria ed in particolare Perugia diventassero vere e proprie roccaforti del prestito ebraico, sia nei confronti del Comune che di privati. Le spese di guerra, sia contro le città vicine sia per le lotte intestine tra le varie fazioni sia per contrastare le scorrerie delle compagnie di ventura, richiedevano il contributo finanziario degli ebrei, che in cambio avevano garantiti privilegi e diritti, anche se a scadenza. Nel secolo XIV almeno due ebrei perugini erano autorizzati ad esercitare la professione medica, così è attestata in città la presenza e l’attività letteraria di poeti e letterati ebrei, che divennero custodi e propugnatori della cultura ebraica, soprattutto attraverso la scrittura di codici e la copiatura di manoscritti.
Alla fine del trecento la comunità perugina assommava a circa duecento unità, un numero ragguardevole se confrontato con quello di altre comunità dell’Italia centrale ed era organizzata nei suoi servizi essenziali, a partire dalla Sinagoga e dal Cimitero.
Gli ebrei perugini erano dispersi nei vari quartieri, in particolare Porta S.Angelo, Porta Santa Susanna e Porta San Pietro, dove le varie famiglie vivevano per lo più nello stesso stabile dove avevano il banco di pegno. Dove la presenza ebraica era maggiormente concentrata era negli edifici situati nell’attuale via Pozzo Campana, perché vicini alle due sinagoghe perugine. Nella zona non venne mai istituito un ghetto, come in molte città italiane, a partire da Venezia, in cui nacque lo stesso termine, derivato dalla antica presenza in quel quartiere veneziano di una fonderia di ferro, da cui “geto” cioè “gettata di metallo fuso, tradotto in “ghèto” dagli ebrei ashkenazi. Non c’era pertanto l’obbligo per gli ebrei di risiedervi, legato alla proibizione di possedere case e terreni in altri luoghi, né tantomeno il quartiere era delimitato da mura e cancelli, che venivano chiusi di notte. La Sinagoga era il baricentro della comunità, casa di preghiera, ma anche tribunale rabbinico e il luogo dove venivano prese le decisioni che riguardavano la collettività, per salvaguardare diritti e garantire doveri, per analizzare, verificare e mettere a punto le particolari strutture giuridiche e socio economiche entro cui quella minoranza si doveva muovere, per fronteggiare collettivamente situazioni di pericolo o di emergenza. “Fare sinagoga”era un diritto facilmente riconosciuto dalle autorità e difficilmente revocato, a condizione che l’edificio avesse un aspetto modesto e semplice, possibilmente una casa d’affitto in grado di mimetizzarsi con gli edifici circostanti, oppure fosse utilizzato un locale all’interno dell’abitazione di una famiglia ebrea ricca e influente. Era il caso della sinagoga ubicata in via Vecchia, oggi via Ulisse Rocchi, a poca distanza dalla chiesa di S.Donato, in uno stabile degli Arcipreti, affittata dalla comunità ebraica nella prima metà del ‘400, mentre nel 1457 un altro edificio, contiguo al precedente. venne acquisito in locazione. Entrambi poi acquistati e posseduti negli anni da ricche famiglie ebraiche, continuarono ad essere utilizzati come Tempio e Scola fino alla loro vendita nel gennaio 1571. Una seconda sinagoga funzionò intorno alla metà del Quattrocento, posta sempre nel quartiere di Porta S.Angelo, parrocchia di S.Donato, lungo le mura etrusche, con l’ingresso sull’ attuale via Pozzo Campana. Il Cimitero era ubicato, sin dal Trecento, in contrada Vigiano nel sobborgo di Porta S.Pietro.
Il secolo XV costrinse la comunità ebraica a fare i conti con uno stato di disordini, di arbitri, di crisi istituzionale, religiosa e sociale seguito agli anni turbolenti di Biordo Michelotti, alla breve stagione di Gian Galeazzo Visconti, alla signoria di Braccio Fortebracci, in cui si alternarono favori e tassazioni, divieti e richieste di prestiti, in un clima di pesante intimidazione alimentato dalle prediche infuocate di S.Bernardino da Siena, rivolte soprattutto contro gli ebrei. I cosiddetti “Statuti di S.Bernardino”, redatti il 4 novembre 1425, contemplavano pene severe contro la bestemmia, la sodomia, la lussuria e severissime contro l’usura, soprattutto se praticata da ebrei. Per quanto si affievolissero e perdessero di valore le accuse e le denunce dei frati predicatori, permase un clima di intolleranza e la conseguente promulgazione di ordinamenti antigiudaici che obbligava, tra l’altro, gli uomini a portare speciali segni distintivi sugli abiti, le donne anelli alle orecchie e “mantelglie al modo anticho”, vietava di uscire di casa durante la settimana santa e l’utilizzo di balie e nutrici cristiane per i figli. Rimase costante la richiesta di denaro, sotto forma di prestiti, anche forzati, o di tasse, venne premiata in denaro la conversione al cristianesimo, ma soprattutto si cercò con misure sempre più restrittive di regolamentare e contenere l’attività economica ebraica a Perugia. Con il 1462 vennero revocati tutti gli statuti e le concessioni dei prestatori ebrei e il 28 aprile venne approvato lo statuto del Monte di Pietà. Paradossalmente, di fronte all’esiguità del denaro disponibile al funzionamento del Monte, fu imposto agli ebrei perugini di assicurare la base finanziaria all’istituto, progettato proprio per la loro rovina. Questo avvenne fra il febbraio e il marzo 1463 e comportò la cessazione ufficiale del prestito ebraico, che però continuò a esistere in forma semiclandestina, largamente tollerato, purché esercitata senza clamori e addirittura semiufficializzato, in occasione del reperimento del denaro occorrente per allestire la Crociata contro i Turchi. Alla fine del quattrocento la comunità ebraica visse un momento di grave sbandamento per la precarietà della loro condizione sociale e per la incertezza del loro futuro di cittadini. Ciò portò a migrazioni verso il nord, alla conversione di interi gruppi familiari e a chi rimaneva come ebreo la paura costante di essere ulteriormente discriminato, vessato, additato pubblicamente come reietto dai continui, insistenti, minacciosi sermoni antigiudaici dei frati predicatori. Ciò nonostante alcuni ebrei riuscirono ad eccellere nella pratica medica, ma anche nella filosofia, nella poesia, nell’insegnamento, conquistando la stima della cittadinanza e il rispetto delle autorità, fino ad ottenere, alcuni, anche il permesso di insegnare all’Università.
La comunità ebraica, per quanto ridotta di numero e intimorita, continuò le sue pratiche sociali e le sue consuetudini quotidiane, fino all’elezione a pontefice di Paolo IV Caraffa, già capo dell’Inquisizione, determinato ad emarginare in forma grave e definitiva gli ebrei nello Stato della Chiesa, istituendo ufficialmente i ghetti ed accentuando le già dure e umilianti limitazioni. Ciò portò all’impoverimento delle comunità, compresa quella perugina ed accentuò l’esodo verso città più ospitali. Pio IV, succedutogli alla sua morte nel 1559, mitigò tali disposizioni ma fu solo una breve parentesi, perché Paolo IV, anch’egli della Santa Inquisizione, ripristinò tutti i provvedimenti, compresa l’imposizione di sempre più forti tasse e prebende e l’obbligo di onorare tutti i debiti pregressi. Obbligate a vendere i beni della comunità, compresa parte delle argenterie rituali della sinagoga, le sette famiglie ebraiche ormai rimaste a Perugia, nel 1569 furono raggiunte dal decreto di Pio V, che espelleva gli ebrei da tutto lo Stato Pontificio, con l’eccezione di quelli abitanti a Roma e ad Ancona, che sarebbero stati rinchiusi nel ghetto. Con l’espulsione furono confiscati i beni immobili e di fatto fu impedito a chi aveva esercitato il prestito su pegno di recuperare i propri crediti. Le ripercussioni negative in campo economico apparvero subito evidenti e nel 1585 Sisto V accantonò e in parte abrogò le misure antiebraiche, permettendo così anche il ritorno di alcune famiglie a Perugia, non più a Pozzo Campana, ma nel vicolo di Pianta Rosa, situato nei pressi dell’attuale zona dei tre Archi. Tutto venne di nuovo messo in discussione con Clemente VIII e nel 1593 l’esodo ebraico da Perugia e dallo Stato Pontificio fu definitivo.
Fonti:
Ariel Toaff, Gli ebrei a Perugia, Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 1975
Ariel Toaff, Il vino e la carne Una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1989
Commenta per primo