Nei giorni tra la fine dell’aprile e l’inizio del maggio 1945 quasi tutta l’Europa festeggia la liberazione dal nazifascismo, tranne Madrid e Lisbona, perché solo negli anni settanta del novecento la Spagna e il Portogallo avranno le loro feste d’aprile.
Fuori dell’Europa la storia ha un segno totalmente diverso.
In Algeria il 25 aprile 1945 viene deportato Mesali el-Hadj, fondatore del Parti Populaire Algérien e questo scatena violente manifestazioni di protesta. Il 1° maggio, in occasione della Festa del Lavoro, le principali città algerine sono teatri di grandi manifestazioni nazionaliste. L’8 maggio a Sètif, in occasione della celebrazione della vittoria alleata, la polizia spara contro i manifestanti algerini e la protesta si trasforma in aperta ribellione, con fattorie ed edifici francesi assaliti e messi a sacco e con la morte di 102 europei. La repressione, feroce e spietata, è affidata a reparti militari in assetto di guerra, a truppe senegalesi, alla Legione Straniera e a bande di coloni armati, appoggiati dai mezzi blindati, dall’aviazione e perfino dalla marina. Il risultato è di 44 villaggi rasi al suolo, interi quartieri urbani dati alle fiamme, fucilazioni ed esecuzioni sommarie che provocano la morte di almeno 15.000 persone, come stimato da una Commissione Governativa, a fronte dei 45.000 denunciati dai nazionalisti. Ad essa seguono migliaia di arresti, la soppressione di associazioni e partiti algerini nazionalisti, ma soprattutto la fine della filosofia e della politica dell’assimilazione dell’Algeria alla Francia. Da quel momento l’opinione pubblica, le forze organizzate, gli intellettuali, i giovani, le masse contadine, saranno per una repubblica autonoma, con una governo ed una bandiera nazionale propria, con un Parlamento eletto a suffragio universale. Per un algerino nel 1945 “ L’Algeria è la patria, l’arabo è la lingua, l’Islam è la religione”.
L’Europa e l’occidente, nel mentre festeggiano la vittoria contro il nazismo e i fascismi nostrani, non mettono in discussione la politica coloniale in Africa, in Indocina, in India, in medio oriente, né le politiche segregazioniste nei propri confini, nonostante l’enorme contributo di sangue e di sofferenze dato nella seconda guerra mondiale dalle migliaia e migliaia di soldati provenienti da quelle colonie e da quei ghetti. Del resto già nella prima guerra mondiale era stato richiesto questo tributo, tantè che 170.000 algerini combatterono nell’esercito francese con ben 25.000 morti, mentre 120.000 algerini sostituirono nelle fabbriche francesi gli operai richiamati al fronte.
Solo a partire dagli anni sessanta del novecento la politica coloniale europea viene messa in discussione dalle lotte e dalle rivendicazioni di quei popoli, per essere sostituita da politiche neocoloniali, sempre finalizzate a predare di materie prime intere aree geografiche se non interi continenti. Fino all’importazione con la forza della democrazia, in Afghanistan prima, poi in Irak, a seguire in Libia, ancora in Siria, con il risultato di destabilizzare governi e istituzioni senza una alternativa credibile e praticabile, né di governo né istituzionale, innescando guerre civili, favorendo satrapie e signori della guerra, alimentando un esodo biblico di milioni di profughi, in fuga dalla morte e dalla distruzione dei loro paesi.
L’Europa non è un luogo dove oggi si può festeggiare alcunché, con il mare mediterraneo trasformato in un cimitero di migranti, con il razzismo ormai dominante in largi settori dell’opinione pubblica, parola d’ordine e programma politico di partiti e movimenti, elemento identitario per interi gruppi sociali, oggetto di polemica e propaganda elettorale.
Non c’è festa per i poveri e gli indigenti europei, sempre più numerosi, forse neanche tanti come nel 1945, quando però era forte la speranza di un cambiamento, la convinzione di un passaggio epocale, la conquista di diritti che apparivano irreversibili, nel mondo del lavoro, nella vita civile, nelle istituzioni.
La memoria del 1945 in Europa non è condivisa né è condivisibile, perché è parziale ed eurocentrica, troppo intrisa di retorica e ideologismi, sequestrata da istituzioni screditate e poco rappresentative, affidata a leader indegni e disattenti, ridondante ed occasionale nei mass media. Eppure va coltivata, tante sono le testimonianze fedeli, tanti gli studi approfonditi, tante le analisi obiettive e tanti sono i dubbi, doverosi. Interrogarsi e non celebrare solamente è forse la cosa da fare.
25 aprile 2015
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