26 febbraio 2015 Il dado è tratto

Stupisce la reiterata aggressività, fatta di male parole, di epiteti ingiuriosi, di insulti che Matteo Renzi destina a chi osa mettere in discussione il suo operato di primo ministro e di segretario del PD. E’ vero che da buon toscano preferisce perdere un amico che una battuta ed è sempre vero che una “sana” aggressività faccia parte della lotta politica, ma piena di argomentazioni stringenti, di considerazioni pertinenti, di forte denuncia di contraddizioni e mistificazioni dell’avversario politico. Altrimenti è il comportamento del bullo, a cui hanno detto che chi picchia per primo picchia due volte.

A meno che dietro questa aggressività ci sia la paura. La paura di stare sbagliando, nei tempi, nei modi, nei contenuti delle scelte di governo e di partito e di lì la paura che su questi sbagli nasca una alternativa, una proposta fatta non di altre battute o di altri insulti, ma di altri progetti e di altri programmi, sia di governo che di partito.

E’ forse per questo che è partito l’attacco contro Maurizio Landini, reo di aver denunciato la mancata rappresentanza politica di chi vive solo del proprio lavoro e di vorrebbe vivere di questo, perché è l’unico in Italia, in questo momento, ad avere il carisma del leader e il consenso vero di significativi settori sociali. L’unico che potrebbe aggregare le forze sparse della sinistra italiana, partendo non da assunti identitari metafisici o da strategie a tavolino, ma dalla semplice e dirompente rivendicazione del lavoro come valore e della conseguente denuncia, altrettanto semplice e dirompente, che il non lavoro o il quasi lavoro o il mezzo lavoro siano uno scandalo, non solo morale, ma anche sociale e politico.

Matteo Renzi sa che su questo terreno è perdente e non bastano i cinguettii informatici, le battute salaci, le dichiarazioni mediatiche, sufficienti a tenere a bada la falsa opposizione di Berlusconi, la tiepidissima opposizione della minoranza PD, l’opposizione strillata dei 5 stelle, l’opposizione a corrente alternata di SEL, ma non a contrastare efficacemente una offensiva a tutto campo del quarto stato, fatto di chi lavora e del quinto stato, fatto di chi vorrebbe lavorare.

E’ grande la responsabilità in questo momento non solo della FIOM ma di tutto il sindacato, perché la partita è nelle sue mani, è l’unico soggetto in campo in grado di dettare una altra agenda politica, altri obiettivi, altri programmi.

Sono comprensibili le smentite, le richieste di chiarimenti, il rimando a tempi lunghi, ma ormai il dado è tratto.

Il principio della rappresentanza, non solo della governabilità, deve tornare ad essere il sale della democrazia, in Italia e in Europa.

26 febbraio 2015

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