Colpisce l’immagine di Barak Obama e di Vladimir Putin (e di tutti gli altri capi di stato) con indosso una tunica tradizionale cinese, in occasione del meeting Asian Pacific Economic Cooperation di Pechino. Non tanto perché assumono il tono dimesso di un cameriere, al massimo di un maggiordomo, ma perché accettano, quasi rassegnati, l’egemonia, in questo caso simbolica, della Cina e, in generale, del continente asiatico. Sul piano sostanziale si tratta invece di accettare un accordo di libero scambio in Asia e in Pacifico, la creazione di una Banca di investimenti da 100 miliardi di dollari (Asian Infrastructure Investment Bank) e l’attivazione di un fondo per la nuova “Via della seta” di 40 miliardi di dollari.
E’ di fatto una sfida istituzionale per l’attuale ordine economico mondiale, dopo che le istituzioni economiche occidentali con le proprie operazioni fallimentari lo hanno di fatto gettato in una crisi senza precedenti.
Ovviamente non erano presenti i paesi europei, lontani geograficamente dal Pacifico, ma soprattutto lontani sul piano economico e finanziario e, di conseguenza, su quello politico.
L’Europa non è protagonista né comprimaria nel ridisegnare i nuovi equilibri mondiali, non è in grado di marcare nessuna egemonia, né di contrastare le spinte di nuove potenze regionali, in un mondo ormai multipolare.
Si è impantanata nel ginepraio nazionalista ucraino, nel difendere frontiere ormai vanificate dalla globalizzazione, mentre in Oriente si lavora alla creazione di corridoi che colleghino l’Oceano Pacifico al Mar Baltico, alla costruzione e l’espansione di porti e aree industriali in tutto il sud est asiatico, al sostegno finanziario ai paesi (anche europei) che vogliono migliorare la connettività.
Non è in grado di contrastare l’espandersi del Califfato tra Iraq e Siria, sia perché non è in grado di sostenere economicamente azioni militari efficaci, sia perché non si è spesa diplomaticamente per integrare nella propria sfera di influenza un paese strategico, soprattutto in funzione anti Isis, quale la Turchia.
Non è nelle condizioni di garantire prestiti per infrastrutture e servizi nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” per avere in cambio materie prime.
La politica del rigore, che la domina e la condiziona pesantemente, penalizza istruzione, ricerca e innovazione, deprimendo così il sapere, soprattutto il saper fare, l’unica vera risorsa del “vecchio continente” , l’unica in grado di renderlo ancora protagonista e comprimario del nuovo ordine mondiale.
In Italia si specula e ci si divide sui campi rom, sull’immigrazione, sullo ius soli, mentre marchi aziendali, segmenti se non intere filiere produttive, istituti finanziari passano di mano, prevalentemente cinesi.
A Perugia l’Università per Stranieri sopravvive (non si sa ancora per quanto) grazie agli studenti cinesi, che ormai sono la nota dominante nella diversità cittadina.
In anni lontani ci appassionammo al film di Marco Bellocchio “La Cina è vicina” perché individuava, con il titolo e con poche scene, il pensiero di Mao Tse Tung e la Rivoluzione Culturale quale possibile riferimento politico ed esistenziale ed una alternativa al trasformismo e opportunismo dilagante.
Mai la Cina era stata tanto lontana come allora e mai la Cina è tanto vicina come ora.
12 novembre 2014
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