23 settembre 2014 La riforma dei beni comuni, a partire dalla sanità

C’è l’esigenza assoluta di aprire una vera stagione riformista nel nostro paese, nel senso pieno del termine, non nell’accezione propagandistica e demagogica che è propria del governo attuale e del suo leader Matteo Renzi. Riforme che ridefiniscano il contesto istituzionale della struttura pubblica, anche dal punto di vista giuridico, non limitandosi ad una sua presunta efficientizzazione, ma puntando a rafforzare le sue competenze e le sue capacità per garantire più sviluppo e più giustizia sociale.

Va ripresa, rilanciata e attualizzata la stagione riformista dei cosiddetti “lunghi anni 70”, prodotta in pieno regime democristiano, in un contesto parlamentare di bicameralismo perfetto, con alle spalle anni di confronto, di scontro, di lotta.

La riforma sanitaria, datata  1978, fu approvata in quella stagione, in un contesto politico ma soprattutto sociale molto diverso. Limitandosi, e sommariamente, al quadro nosografico, i fenomeni dell’invecchiamento della popolazione e della cronicizzazione delle malattie allora non erano né percepiti né percepibili.

Oggi si deve fronteggiare la cosiddetta transizione demografica,  cioè il processo di cambiamento della struttura globale della popolazione prodotto dal mutare della  relazione tra tassi di natalità e tassi di mortalità.

Le tendenze demografiche in atto in Italia mostrano un aumento degli anziani sia in senso relativo che assoluto, legato al declino dei segmenti più giovani e che l’80% delle morti avviene nella popolazione anziana, quando nel 1900 solo il 25% delle morti avveniva in soggetti ultrasessantacinquenni. All’invecchiamento della popolazione si accompagna inevitabilmente l’aumento delle malattie croniche.

Esse sono caratterizzate da eziologia incerta, fattori di rischio multipli, lungo periodo di latenza, lunga durata, cause non infettive, disabilità funzionale associata, in guaribilità. Nei loro confronti sono pertanto ipotizzabili gli interventi tesi a diminuirne l’incidenza, a posporre l’insorgenza di disabilità, ad alleviare la gravità della patologia e a prolungare la vita del paziente affetto.

La sanità va quindi ripensata, mantenendo però fermo il principio di solidarietà, secondo il quale la salute può essere garantita solo da un grande sforzo solidale che vede interessate e responsabilizzate le persone, le famiglie, i gruppi sociali, le imprese, le istituzioni. Questo principio deve continuare a sorreggere il nostro Servizio Sanitario che è e deve continuare ad essere di tipo universalistico, caratterizzato da  pari opportunità di accesso ai servizi, da uguaglianza di trattamento ad ogni persona, da condivisione del finanziamento del sistema, basato sulla solidarietà fiscale.

Lievito di tutto questo è la partecipazione, la possibilità per i cittadini di acquisire maggiore potere all’interno della comunità, sia tramite un aumento delle informazioni necessarie a indirizzare scelte e decisioni sia attraverso l’acquisizione di maggior peso riguardo alle decisioni riguardanti la vita comunitaria.

In ambito sanitario comporta il maggiore coinvolgimento delle persone nelle decisioni che le riguardano, al di là del consenso informato, riconoscendo loro il diritto al coinvolgimento nella definizione e nell’attuazione dei trattamenti, la sollecitazione dei suggerimenti, anche critici, la facilitazione della formazione di gruppi di mutuo auto-aiuto tra pazienti e familiari, la redazione di linee guida e di descrizione delle condizioni patologiche e dei trattamenti destinate specificatamente agli utenti. Questo vale anche per gli operatori del sistema sanitario,  prevedendo loro la attribuzione di maggiore responsabilità e di maggior autocontrollo.Il documento redatto nel 2008 dalla Commissione sui determinanti di salute dell’OMS nel “final report” dichiara testualmente: “l’assistenza sanitaria è un bene comune e non una merce dipendente dal mercato”.

E’ un bene comune pertanto l’organizzazione sanitaria che come tale gestisce le attività e i servizi preposti alla tutela del diritto alla salute. Tale diritto è contemplato dalla Costituzione della Repubblica Italiana che, negli articoli 3 e 32, lo definisce diritto complesso (a contenuto duplice), diritto di seconda generazione, diritto universale e diritto fondamentale.

La salute appartiene pertanto al pieno dominio dei diritti e non ha bisogno pertanto di nuove declinazioni mentre la sanità, nel rientrare nel dominio dei beni comuni, trova valenze e significati nuovi, in quanto di fatto viene superata la sua concezione di “bene pubblico”, che attualmente la contiene e la legittima.

La sanità italiana è attualmente un bene pubblico a gestione privata, affidata a gestori con contratto di tipo privatistico, con un incarico che ha come vincolo essenziale la disponibilità e l’accessibilità alle risorse finanziarie pubbliche. La tutela e la promozione della salute rimane sullo sfondo come possibile esito di un sistema che persegue finalità fondamentalmente a vantaggio dei decisori (politici), dei gestori (direttori) e degli erogatori (professionisti). Infatti il processo di aziendalizzazione, introdotta dalla riforma De Lorenzo del 92/93 (e confermata dalla riforma Bindi del 1999)  in quanto tale non può prescindere da un approccio economico-aziendale, che tende ad interpretare il sistema sanitario non come un sistema unitario, ma come sistema di aziende dotate di autonomia, per cui la funzionalità complessiva si può migliorare modificando le modalità di funzionamento delle singole aziende, senza imporre comportamenti uniformi, anche alla luce di un sistema sanitario sempre più regionalizzato. Questo comporta un sistema sanitario di fatto competitivo e non cooperativo, con la quasi impossibilità di tracciare le politiche di governo in specifici ambiti di attività, definire le regole complessive del sistema (nonostante i Piani Sanitari Nazionali e Regionali), individuare i sistemi di finanziamento e di accreditamento.

La categoria di assistenza sanitaria come bene comune non è quindi un valore aggiunto alla realtà esistente, una semplice ridefinizione del sistema sanitario vigente, una sottolineatura di valori già esistenti, ma un elemento di cambiamento radicale, che il connotato principale che deve avere una vera riforma.

Rappresenta infatti un “vulnus” nei confronti della connotazione principale assunta oggi dal SSN: l’aziendalizzazione e con essa la monocrazia aziendale nelle ASL, affidata a un direttorio che stenta ad affermarsi come potere gestionale e che si pone invece come collaterale a quello politico e sovraordinato a quello tecnico, negando di fatto ogni dialettica democratica, pregiudicando una reale e fattiva partecipazione, contemplata solo come momento formale di consenso.

Una riforma della sanità è quindi oltremodo necessaria e urgente, all’interno di una strategia di sviluppo, anche perché essa è vissuta da questo governo prevalentemente come una spesa, e di conseguenza le politiche per la sanità saranno per lo più politiche di ricerca dell’efficienza e di razionalizzazione/riqualificazione della spesa, con il rischio di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica, per intaccare i principi di fondo che il sistema di tutela della salute ha adottato come elementi fondanti: universalismo, equità, unicità.

I settori sanitario e sociosanitario possono invece essere visti come un potenziale volano dello sviluppo socio economico complessivo del paese, anche perché è di fatto uno sviluppo“virtuoso”, in quanto portatore di competenze tecnologiche, di alto capitale umano, di alta specializzazione e ricerca, di alto impegno professionale e radicato territorialmente e quindi non a rischio di delocalizzazioni.

Alcuni passaggi sono obbligatori.

Vanno individuati i settori, oltre la sanità, che possono  essere trasformati in beni comuni, perché se tutto è bene comune niente è bene comune. I beni comuni sono tali se sono strettamente legati al soddisfacimento di un diritto. Per la sanità è il diritto alla salute, per la scuola pubblica è il diritto all’istruzione, per la gestione dell’acqua è il diritto alla vita, solo per fare alcuni esempi. Questi diritti vanno comunque garantiti e il parametro di definizione del valore e dell’utilità di un bene comune è la vita, non il costo associato alla sua disponibilità ed accessibilità. Non si tratta infatti di servizi rivolti alla soddisfazione di domande individuali o collettive mutevoli, perché dipendenti dal loro valore sul mercato, dal costo di accesso e dalla loro utilità commerciale.

Per questo vanno elaborate strutture giuridiche nuove, che si aggiungano a quelle di bene pubblico e di bene privato e che abbiano riconoscibilità e legittimità in uno stato di diritto.

La sanità come bene comune non è pertanto una astratta difesa del carattere pubblico del sistema sanitario, ma è una revisione e un deciso superamento delle attuali strutture verticistiche e una sua forte apertura alla soggettività sociale. Esso comporta la progettazione di un nuovo, più avanzato ed efficace modello di sistema sanitario, centrato sulla prevenzione e sul territorio, con la costruzione delle relative strutture organizzative e politiche, con nuovi equilibri tra le sue diverse componenti e tra il momento delle valutazioni tecniche e quello delle decisioni operative, con una sua radicazione nel tessuto delle comunità locali e con i relativi strumenti di informazione e controllo democratico, e in ultimo ma non come ultimo,la individuazione delle necessarie risorse umane e finanziarie e la loro più efficace allocazione.

E’ un compito complesso, non facile né di breve durata, ma le vere riforme non si fanno con un twitter.

23 settembre 2014

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