Una volta gli Agnelli si recavano al Quirinale per presentare al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio gli ultimi prodotti della loro casa automobilistica, la Fabbrica Italiana Automobili Torino. Erano per lo più utilitarie, destinate ad un consumo di massa tra la piccola e media borghesia italiana e settori significativi del proletariato urbano. Era un evento anche mediatico, con il quale si evidenziava la interdipendenza tra le sorti di quella fabbrica e quelle dell’Italia, grazie alla quale venivano garantiti, da parte dello stato, incentivi, favoritismi, contributi.
Oggi gli Agnelli, con anche nuovi cognomi, trasformatisi in finanzieri da imprenditori quali erano, hanno cambiato anche la ragione sociale, la sede legale e il mercato finanziario di riferimento di quella che una volta era la Fiat e si presentano al Presidente del Consiglio con due gipponi, ingombranti, inquinanti e molto costosi, destinati ad una fetta ristretta di consumatori e con un marchio multinazionale.
Perché infatti rivolgersi a fasce sociali il cui potere d’acquisto è praticamente azzerato, grazie al lavoro sottopagato o precario o al non lavoro, che sta impoverendo non solo chi era da sempre povero o poco più, ma interi gruppi sociali che si erano con fatica emancipati economicamente e che avevano garantito alle generazioni successive inclusione sociale e possibilità di accesso a beni e servizi ?
Perché investire in tecnologia, perché rinnovare modelli e prototipi, perché sfidare i produttori asiatici quando ormai è venuto meno in Italia il target di riferimento, le migliaia di operai, di impiegati, di funzionari, di pubblici dipendenti che garantivano alte quote di mercato, perché certi del loro reddito e con esso della propria collocazione sociale e di ulteriori possibilità di crescita?
L’auto privata rappresentava, insieme agli elettrodomestici, alla radio, alla televisione, uno degli status symbol dell’Italia moderna, non solo veicolo per il lavoro, ma anche per lo svago e le relazioni sociali, grazie alla quale si raggiungevano mete altrimenti irraggiungibili.
I suoi fruitori erano del resto protetti socialmente da un welfare vario e articolato, erano tutelati da sindacati e movimenti, erano rappresentati politicamente da partiti e associazioni, trovavano voce nel Parlamento e nelle assemblee elettive, leggevano di sé nella stampa quotidiana e periodica.
Tutto questo sembra appartenere ancora al presente, ma solo apparentemente.
Chi si rivolge, ad esempio, al Servizio Sanitario Nazionale, o di quello che resta dopo privatizzazioni ed esternalizzazioni, sa quanto crescente è il contributo out of pocket per servizi e prestazioni, chi frequenta la scuola pubblica conosce il degrado delle strutture e dell’insegnamento, chi è costretto da lavoratore pendolare ad usufruire del trasporto pubblico verifica quotidianamente inefficienze e disservizi. Per non parlare della crisi di rappresentanza dei sindacati, della evanescenza organizzativa e politica dei partiti, della perdita di autorevolezza, di capacità e di competenze delle assemblee elettive a partire dal Parlamento. Chi narra poi, con sistematicità quotidiana o periodica, le vicende, le lotte, le speranze, le ambizioni di classi e gruppi sociali, al di là della cronaca nera, degli eventi sensazionali, delle manifestazioni di regime?
E’ per questo che ai primi di agosto 2014 gli italiani si sono trovati senza la Fabbrica Italiana Automobili Torino, senza Senato della Repubblica e senza L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
19 agosto 2014
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