
Il Cilento è terra di miti sin dall’antichità, alimentati nei secoli successivi e sino ad oggi dalla sua inaccessibilità e arretratezza.
La scelta di un viaggio in quelle terre è suggerito da tutto questo, ulteriormente legittimata dall’esistenza in quei luoghi di un parco nazionale, che, secondo la concezione comune, è sinonimo di protezione e tutela della natura, blocco della cementificazione, recupero e qualificazione dell’edificato esistente, coltivazioni e allevamenti ecosostenibili.
Bastano alcuni chilometri al suo interno, attraversando il Vallo di Diano dopo l’uscita autostradale di Atena Lucana e imboccare dopo S.Rufo i primi tornanti, per capire che, nonostante l’asprezza dei suoli, le difficoltà di comunicazione, l’impossibilità di una agricoltura intensiva o per lo meno diffusa, i paesi che incontriamo, Roscigno, Bellosguardo, Roccadaspide, sono ancora fittamente abitati, non sappiamo se per una residenzialità stabile o per un ritorno estivo di ex residenti. Le case sono arroccate le une sulle altre, quasi tutte restaurate e intonacate, non c’è il non finito di solai senza copertura con i tondini di ferro a garantire un possibile prosieguo, comunque non si nota una edilizia di pregio e le uniche evidenze architettoniche sembrano essere le parrocchiali e i loro campanili. Una nuvolaglia afosa restringe gli orizzonti e il rimando di quelle alte e disalberate colline, separate da profondi valloni, è cupo e la strada è troppo tortuosa per allentare l’attenzione e guardarsi attorno. Raggiunta la piana del Sele imbocchiamo con sollievo la strada 118 perché i primi cartelli stradali ci annunciano la vicinanza di Agropoli, la fine della tappa, dopo molti chilometri di autostrada e di montagna. Ma un altro cartello ci distoglie ed è quello della masseria Vannullo, segnalataci da Vincenzo come tappa obbligata per gustare una brioche condita con jogurt al latte di bufala e marmellata di arance. C’è anche il gelato e altre brioche e altri jogurt e poi ci sono le bufale, allevate in grandi recinti e alimentate e munte in capannoni moderni e tecnologici. La giornata così recuperata si conclude al meglio con la pulizia e il confort del B&B Villa Scotillo e con la pizza da Ciccio. Tutto ad Agropoli.
Agropoli è la porta del Cilento. Da lì si dirama la 267 che è la strada costiera e nei pressi passa la 18, l’antica strada delle Calabrie, che attraversa l’interno del territorio cilentano, passando per Vallo di Lucania e raggiungendo Policastro Bussentino.
E’ per questo che è piena di gente, residenti e vacanzieri, che affollano le vie centrali pedonalizzate, che salgono verso il centro medievale con il suo castello e con una vista amplissima sul Tirreno. Così piena di gente è Santa Maria di Castellabate, anche i pochi metri quadrati di spiaggia, strappati al mare, tra gli scogli e le case che vi si prospettano e che attestano inutilmente la loro origine di borgo marinaro, a fronte dell’ormai dilagante turismo di massa. Ogliastro Marina sembra invece un piccolo paradiso di verde sul mare alle pendici del monte Licosa, ma un cancello che sbarra l’accesso alla Punta Licosa e cartelli che declamano la sua natura privata, scoraggiano, più del caldo, una escursione a piedi.
Acciaroli è più invitante, il caldo è smorzato dalla brezza marina, il lungomare è ampio e vivibile, il porticciolo è un’enclave di tranquillità. E’ vero che è ora di pranzo, nessuno è in giro e anche noi ci rifugiamo sotto gli ombrelloni del ristorante Boccaccio, avendo bocciato il Mediterraneo per l’evidente scempio edilizio della sua torre moderna e sgraziata sul mare. E’ l’unica sconcezza perché nei vicoli e nelle strade interne del piccolo paese prevale un recupero edilizio attento alla antica tipologia delle case, le stesse che deve aver visto Hemingway, che il mito ricorda turista in quei luoghi. Dopo pranzo ci arrampichiamo in macchina lungo i fianchi del monte Stella, per toccare Pollica, S.Mauro Cilento, Serramezzana, Perdifumo fino a Castellabate. E’ una strada di curve e controcurve, l’unico sollievo è una vista, per noi inusuale, del mare dall’alto, con un orizzonte lontanissimo e ci colpiscono ancora i tanti abitanti, le tante case, le tante automobili in posti abbarbicati su cucuzzoli o su fianchi scoscesi, che sembrano lontani dal mondo e che invece esprimono un proprio mondo. A Castellabate una birra e un caffè, ma anche il castello e il reticolo fitto dei vicoli che lo circondano e che nascondono chiese e piazzette antistanti, palazzotti baronali e giardini, intracaselli e scalinate e la vista amplissima della costa sul golfo di Salerno.
Ad Agropoli cena di pesce, sempre da Ciccio e bagno di folla dopo cena per la notte blu.
C’è un’aura magica intorno a Paestum. Silenzio, luce, caldo. Si sentono solo le cicale, le colonne doriche sembrano assorbire la luce di un sole padrone assoluto del cielo. Ci muoviamo quasi intimiditi nel grande spazio per decodificare la città antica, i suoi spazi urbani, le case, le strade lastricate, ma lo sguardo è sempre catturato dai templi, sono loro a marcare il paesaggio, a definirne i confini, a stabilire le proporzioni, sono loro a dettare le emozioni. Nonostante il cerchio quasi intatto delle mura, il tempio italico, l’anfiteatro, il sacello sotterraneo. Sarà il museo archeologico nazionale a riaccendere altre emozioni e a riproporre sbalordimenti, anche grazie ad un allestimento funzionale, ad un buon sistema esplicativo, a percorsi didattici convincenti. E’ così possibile scoprire, grazie ad un sapiente gioco di luci, gradualmente ed in crescendo le sei Hydrie e le due anfore, oltre agli spiedi, contenute all’interno del sacello ipogeo dell’agorà, immergersi nella contemplazione, ma anche nella lettura, degli affreschi della Tomba del Tuffatore, apprezzare la grande espressività di statue e dei tanti affreschi tombali, contemplare a distanza ravvicinata le metope in arenaria del santuario di Hera. Sarà quello che cercheremo, alla fine della visita del parco archeologico, alla foce del Sele, tra strade malandate e cartelli ingannevoli, trovando solo una probabile area archeologica in una solitudine assoluta ed il museo narrante chiuso.
Ma tutto meritava il nostro tempo e la nostra attenzione e così nel primo pomeriggio ci meritiamo il bis di jogurt di latte di bufala alla masseria Vannullo.
Sempre cena a base di pesce da Ciccio ad Agropoli e la visione televisiva dell’ennesima brutta sconfitta del Brasile ai campionati del mondo di calcio.
Per la statale interna n.18 puntiamo su Palinuro, passando per Vallo di Lucania, una grossa cittadina ai piedi del Monte Gélbison, termine arabo per monte dell’idolo. Non c’è niente che ci colpisca e siamo per di più disturbati da una pioggerella sottile e fastidiosa. Filiamo via, dopo un caffè, sulla statale che è a scorrimento veloce, ormai tra monti dalle pareti fittamente boscati per poi attraversare su lunghi e scenografici viadotti una amplissima conca verde. A S.Severino c’è l’uscita per Palinuro che raggiungiamo attraverso la bellissima gola rocciosa scavata dal fiume Mingardo. Abbiamo prenotato al King’s Residence, a picco sulle scogliera, un quattro stelle con piscina consigliatoci dal proprietario di Villa Scotillo.
C’è ancora tempo per mangiare in paese una pizza e fare un primo giro nelle due vie deserte per il pomeriggio domenicale, con i tanti negozi chiusi, la piazzetta malamente pedonalizzata, una assurda chiesa moderna accanto a un vecchio e modesto campanile. Se esisteva un borgo marinaro è stato letteralmente coperto da un’edilizia balneare anonima, gli occhi sono catturati solo da una cartellonistica turistica invadente e ridondante, per reclamizzare una banale offerta commerciale. L’unica emergenza storica sembra essere un piccolo palazzotto baronale, di bella fattura, dove sembra abbia soggiornato Murat, al tempo Re di Napoli, ma è stato restaurato malamente e a metà, e si presenta dissociato e malmesso. Solo la risalita al faro permette di spaziare, dall’alto delle rocce a precipizio sull’acqua, sulla linea di costa e sulla distesa del mare, scintillante per il sole tornato padrone.
Per la cena diffidiamo del ristorante dell’albergo e raggiungiamo Pisciotta, un piccolo paese affacciato sul mare da un alto balcone di roccia rivestito di ulivi giganteschi, dal tronco enorme e dalle alte chiome per poi ridiscendere a Marina di Pisciotta, piccolo centro marinaro, con un porto turistico, pochi metri di spiaggia tra la strada e le scogliere ma soprattutto il ristorante Angiolina, segnalato dalla guida di Slow Food e ancora da Vincenzo. Melanzane ‘nghiappate alla pisciottana, alici ‘nbuttunate, zuppa mediterranea di pesce e verdura, sfogliatina con crema di melanzane e cioccolato e, per digerire, liquore al finocchietto. Tutto suggerito dalla moglie del proprietario, originaria di Todi.
Il giorno dopo si decide di raggiungere Velia passando di nuovo per la statale interna n18, essendo la strada costiera tra Pisciotta e Ascea interrotta da una frana, ma il tempo non ci è favorevole. Quando raggiungiamo di nuovo la costa, nei pressi della foce dell’Alento, la pioggia ci sconsiglia l’ingresso alla zona archeologica e diventa un vero nubifragio a Marina di Ascea. Appena il tempo di un caffè e, dopo un tentativo velleitario di visitare Ascea, con l’auto imbottigliata in un dedalo di vicoli strettissimi, è d’obbligo il ritorno a Palinuro. Abbiamo ancora il pomeriggio davanti, non ci va di rintanarci in albergo e quindi raggiungiamo Marina di Camerota, intasata di un traffico infernale, sia di pedoni che di auto. Basta uscire in direzione di Camerota per lasciarselo alle spalle e risalire con ampi tornanti i fianchi di un profondo vallone fino a vedere il paese, arroccato su uno sperone di roccia coperto di ulivi. E’ un nido d’aquila a guardia dell’unica strada possibile, con un castello semidiruto nel punto più alto, vicoli ad anello dell’acropoli, molte case chiuse e sbarrate, obbligate ad un degrado che sembra inevitabile. I grandi ulivi sembrano garantire un buon raccolto e alcune rivendite di manufatti in terracotta segnalano un vivace attività artigianale, ma l’impressione di essere lontano dal mondo è molto forte. Diventa una certezza quando entriamo nella trattoria Rianata a’ Vasulata, dove tutto è improbabile. Dobbiamo scoprire da soli come si ordina, come si paga, dove si mangia, chi ci serve. Nell’ordine: entrati nella grande cucina a ridosso della strada, davanti a un forno a legna acceso tanti tegami di coccio contengono le tante offerte, mentre una teglia con la pizza senza mozzarella e insaporita dall’origano (la rianata) viene messa sulla brace. Si indicano le pietanze all’uomo davanti al forno che grida gli ordini ad una signora dietro un bancone, a cui si paga per poi salire al piano superiore in una rustica saletta dove si viene serviti, avendo cura di portare da soli le bevande. La pizza è un capolavoro alimentare, ma non sono da meno la ciambotta, le melanzane e i peperoni ripieni, i fusilli con il sugo di pomodoro, i fiori di zucca farciti di ricotta. Siamo in estate, ma c’è un’aria frizzante di montagna, il mare è vicino ma è invisibile, ci dicono che le olive vengono raccolte a terra su grandi teli ai piedi dell’albero e io compro una brocca di terracotta che sembra greca.
Il mattino dopo il sole è di nuovo tornato e questo ci permette di raggiungere di nuovo Velia, sempre via Vallo di Lucania. La zona archeologica non ha la monumentalità solenne di Paestum, ma l’impianto urbano di cui si colgono i resti è articolato in un terreno variegato innervato dall’antica via lastricata di epoca greca, che sale la collina, affiancata dai resti di edifici e fontane. Prima di raggiungere la cima la strada si porta ad un valico, chiuso dalla monumentale Porta Rosa, raffinata per le pietre a bugnato e per le complesse tecniche costruttive. E’ la prova della importanza e magnificenza di Velia, come testimonia anche l’acropoli , un terrazzo artificiale quasi a picco sul mare, dove emerge la grande torre circolare e i resti del castello medievale che ha come base un grande tempio ionico. Il teatro è come vigilato dalla cappella angioina, con dentro un piccolo lapidarium e, all’opposto, dalle due cappelle di S.Quirico e di S.Maria, anch’esse oggi spazi museali. Tutto è raccolto, discreto, silenzioso. Il mare fa sempre da sfondo.
Sulla strada del ritorno sosta per una mozzarella e un gelato al latte di bufala ad una masseria poco dopo Ascea Marina e poi, sempre via Vallo di Lucania di nuovo a Palinuro, per l’occasione, più volte rimandata del giro in barca del promontorio.
Una nuvolaglia sullo sfondo e il rombo di alcuni tuoni dovrebbe sconsigliarci l’escursione, ma soprattutto la dovrebbero sconsigliare gli organizzatori, interessati solo a vendere biglietti. Così partiamo in un gozzo con solo noi due come passeggeri e il marinaio al timone. Il mare è già mosso ma, a detta del nostro caronte, dovrebbe calmarsi dopo il promontorio, per il cambiare del vento. E così è e questo ci permette di visitare la grotta Azzurra, la grotta del Sangue, la grotta dei Monaci. Una sottile inquietudine non ci permette di apprezzare al meglio i colori dell’acqua e delle rocce, le forme delle stalattiti e degli scogli, le tante informazioni del marinaio perché il tempo è visibilmente peggiorato, ma proseguiamo fino alla baia del Buon Dormire, dove ovviamente la proposta di un bagno ci sembra fuori luogo ed invece è opportuno un rapido rientro, reso impossibile da una pioggia divenuta sempre più battente, sopportabile solo con il ricovero nella grotta delle Cornacchie.
Dopo più di mezz’ora di attesa, in un momento apparente di tregua si riprende il mare, che ormai è agitato da tutti i venti, mentre il gozzo arranca sulle onde e la pioggia e gli spruzzi marini ci bagnano fino alle ossa. Usciamo fradici dal gozzo, fradici ci immergiamo nella macchina e sempre fradici rientriamo in albergo.
Ovviamente la sera la tempesta è finita e possiamo concludere la giornata a base di pesce, in un ristorante del porto quasi a pelo d’acqua, in quel momento straordinariamente immobile.
Lasciamo il mare, una volta raggiunto il Golfo di Policastro, direzione Sanza, alla ricerca delle tracce di Carlo Pisacane. Una stele, un volto di marmo, parole tardive di riconoscimento che sanno solo di pietà. Nient’altro, ma come pretendere di più dopo tanti anni da quell’evento, con in mezzo ancora irrisolta la questione meridionale, troppo intrisa di retorica la lettura storica del risorgimento in quelle terre, ancora oscure o poco divulgate le cronache di rivolte e ribellioni ? Così non ci meravigliamo che il sacrario dei trecento “giovani e forti” a Padule non sia visitabile, per cause che la gentilissima addetta non riesce a rendere comprensibili.
Rimane invece perfettamente visibile in tutta la sua magnificenza la Certosa, un’incredibile ostentazione di ricchezza e di potere dell’ordine certosino, con centinaia di sale e stanze, decine di cortili, di scalinate, di fontane. La Chiesa di San Lorenzo con altari con decorazioni policrome di madreperla e lapislazzuli, pavimenti maiolicati, cori cinquecenteschi fa da controparte, in magnificenza, alla cucina con una immensa cappa che domina l’ambiente, con ancora tanti punti di cottura, lavelli e tavoli da lavoro in pietra. L’organizzazione degli spazi segue uno schema che è la rappresentazione di un ordine sociale che si voleva immutabile ed eterno: da una parte pochi monaci, destinati ad una vita di clausura fatta di silenzio e di meditazione, con vere e proprie “suite” all’intorno del chiostro più grande del mondo, mentre nella parte bassa della certosa, in ambienti meno scenografici e monumentali, centinaia di conversi garantivano le attività di servizio e sussistenza, in pieno contatto con il mondo esterno, compresa l’attività agricola. A questo punto avremmo voluto visitare la parte superiore con la biblioteca, accessibile tramite una scala elicoidale in pietra o alla galleria, oggi spazio espositivo a cui si arriva con un monumentale scalone a rampe, ma sono spazi chiusi per ragioni di sicurezza o per gestioni istituzionali separate, così come lo spazio all’interno dello stesso chiostro Grande è interdetto da transenne metalliche da cantiere, orribili in quel luogo. La Certosa è il luogo delle mille contraddizioni, compresa la sua destinazione a caserma di soldati francesi nell’ottocento e a campo di prigionia dei soldati austroungarici tra le due guerre, dissimulate dalle volute barocche, dagli stucchi, dagli affreschi, dagli intarsi lignei, dai giardini.
Sciogliamo ogni dubbio in un agriturismo nelle vicinanze di Padula, con appartamenti in casette circondate da un bosco di castagni, allietati da un branchetto di caprette nane ed una cucina ridondante come la Certosa.
La giornata del ritorno è dedicata alla ricerca quasi disperata di francobolli per cartoline di Sanza (per Virgilio e Roberta) e Atena Lucana ( per Vincenzo), all’acquisto di caciocavallo a Sala Consilina, alla visita di Teggiano e al percorso su una strada boscata e tortuosa, a costeggiare i Monti Alburni, fino a raggiungere l’autostrada poco prima di Eboli.
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