Sessantasette anni fa Primo Levi, con il suo “Se questo è un uomo”, chiedeva se erano ancora umane le migliaia di esseri che erano stati rinchiuse e massacrate nei lager nazisti, private, prima di morire, ma anche nel modo di morire, magari per un si o per un no, di ogni elemento che li potesse identificare come uomini e come donne. Nelle pagine che ha scritto, nei racconti e nelle testimonianze che ha fornito, Primo Levi ha sempre denunciato come la principale tragedia di questi esseri, ebrei, omosessuali, rom, prigionieri di guerra, forzati del lavoro, fosse la negazione sistematica di ogni possibilità di identità e di appartenenza, l’annullamento del loro passato e anche del loro futuro, costretti ad un breve, drammatico presente.
Sessantasette anni dopo, in forme e contesti totalmente diversi, questa domanda si pone di nuovo, nonostante non ci si trovi di fronte a “soluzioni finali” di quella natura e di quella portata.
Questa domanda è espressa da migliaia di individui che, accalcati su carrette del mare, stipati nelle sentine di barconi da pesca, aggrappati gli uni sugli altri su fragilissimi gommoni, raggiungono le nostre coste, molti perdendo la vita, annegati, asfissiati, disidratati, collassati per il freddo o per il caldo. Per non parlare di chi a Ceuta o Melilla in Marocco, sul fiume Mariza tra Grecia e Turchia, nei sottofondi dei Tir, persegue lo stesso obiettivo di raggiungere un paese europeo.
Non sono emigranti. Lo erano quelli che come loro negli anni passati hanno battuto le stesse strade, ma avevano alle spalle un paese, un villaggio, una comunità, una famiglia in cui volevano tornare, dopo aver conquistato con il lavoro, ogni tipo di lavoro, le risorse materiali per sostenere parenti, garantire l’istruzione ai figli, ricostruire la casa, avviare una attività. Nel frattempo bastavano le rimesse da inviare, costruite con risparmi e rinunce e questo presente era accettabile perché c’era una speranza, rappresentata da un progetto di vita futura. Così sono stati emigranti milioni di italiani, ma anche di spagnoli, di greci, di turchi, di irlandesi e se non sono tornati, o per impossibilità o per volontà, hanno costituito nei paesi di arrivo comunità, sodalizi, fratellanze. Questo vale ancora oggi per gli emigranti dei paesi dell’est europeo, dall’Ucraina alla ex Yugoslavia, passando per l’Albania.
Ma non vale per gli africani del Maghreb, del Sael o del Corno d’Africa, per i siriani, i palestinesi, gli iracheni che a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione fuggono dai loro paesi d’origine, perché non esistono più le loro comunità, sono disperse le loro famiglie, sono distrutti i loro villaggi e le loro città, sono a rischio di vita quotidiano o di persecuzione, per le loro idee, le loro religioni, le loro facce.
Chi affronta il mare in quelle condizioni, magari dopo aver attraversato il deserto, essere sfuggito ai bombardamenti e alle razzie, non è stato derubato solo dei propri beni materiali, della propria integrità e dignità, ma soprattutto della propria umanità. Sa di non avere più diritti da rivendicare, la sua identità è stata spazzata via dagli stenti, non vale avere studiato o essere credente o essere gentile, quando si è in balia delle onde o quando si è rinchiusi in un Cie, non si appartiene più a un popolo, a una gente, ad una comunità quando si è ammassati, rinchiusi o, nella migliore delle ipotesi, parcheggiati. Chi fugge dalla fame, dalla miseria, dalla morte non ha un futuro, vive le contingenze del presente, il suo progetto coincide con l’avvicendarsi del giorno e della notte, perché nell’arco di una giornata ci può essere il cibo, un riparo, il riposo, ma oltre niente è dato con certezza.
Poniamocela questa domanda, chiediamoci come è stato possibile che altre migliaia di esseri siano stati privati della loro umanità, perché sono continuate guerre, persecuzioni, genocidi, pulizie etniche, di fronte a milioni di europei che sono gli stessi a cui si rivolgeva Primo Levi: “voi che vivete sicuri, nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici, considerate se questo è un uomo”.
8 luglio 2014
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