Ha fatto molto scalpore, più in Italia che nella città di Perugia, la rimozione del Prefetto Antonio Reppucci per le improvvide, inopportune ed anche sconsiderate considerazioni su ruoli e compiti della famiglia nel controllo di comportamenti dei propri figli, al fine di una effettiva prevenzione del fenomeno delle tossicodipendenze. Da un rappresentante delle istituzioni si pretende infatti un linguaggio ponderato ed equilibrato, che rifugga da generalizzazioni e criminalizzazioni e che auspichi soluzioni collettive e condivise, non gesti individuali ed estremi.
Le polemiche che ne sono seguite non sono però andate al di là della stigmatizzazione di parole ed auspici e non hanno riguardato il nodo che il Prefetto, ripeto in modo improvvido, ha affrontato con veemenza e passionalità: la questione della domanda di droga nella nostra società ed in particolare nella città di Perugia. Troppi si interrogano solo ed unicamente sull’offerta di stupefacenti , chiedendo, legittimamente, una efficace azione di contrasto da parte delle forze dell’ordine ed un’altrettanta efficace azione di repressione da parte della magistratura. Il prefetto Reppucci non si è tirato indietro rispetto al suo ruolo di coordinatore e referente istituzionale di tali azioni, ma ha sempre denunciato i limiti di una pura e semplice delega alle forze dell’ordine e alla magistratura per combattere il fenomeno della dipendenza, quasi una forma di “tutoraggio” sociale, un mandato che andava al di là delle reali possibilità di intervento di questi soggetti. Di qui la richiesta di un intervento globale, il richiamo all’intero mondo istituzionale, la chiamata in causa della famiglia, parte integrante di una filiera, formata anche dalla scuola, dalle parrocchie, dal volontariato, dal terzo settore.
Al di la delle parole di Antonio Reppuci, ormai ex Prefetto di Perugia, è il momento di interrogarsi sul perché sia così forte a Perugia, come altrove, la domanda di “droga”, e quali siano gli anticorpi che questa città, come le altre, è in grado di attivare per un efficace contrasto alle dipendenze.
Perugia non è la capitale della droga, come alcune improvvide e sconsiderate inchieste giornalistiche avrebbero titolato, è però una città che ha visto appannarsi il ruolo di capoluogo regionale, la caduta verticale di alcuni segmenti produttivi, il ridimensionamento di altri, il collasso di settori distributivi di beni, la perdita di attrattività della sua Università per Stranieri, il disperdersi su scala regionale, dequalificando l’offerta didattica, della sua Università degli Studi con il contemporaneo ridimensionamento dell’attività di ricerca, il contrarsi dell’offerta di servizi pubblici, la desertificazione sociale di preziose aree urbane.
Rimane comunque la città più importante dell’Umbria, una “massa critica” di quasi duecentomila persone, compresi circa ventimila studenti universitari, che oggi però fa i conti con una identità difficile, per il venir meno di elementi simbolici, di chiare modalità di appartenenza, per il rarefarsi di luoghi sociali, di spazi comuni pienamente fruibili e praticabili, malamente rappresentati oggi dai grandi centri commerciali.
Perugia non è la capitale della droga perché mancano gli elementi indispensabili che permettano in loco la regia di operazioni criminali e il controllo mafioso del territorio, quali un degrado urbanistico, economico e sociale diffuso, una altrettanto diffusa illegalità ed una corruzione che contamina la politica, le amministrazioni, gli uffici pubblici, le libere professioni.
A Perugia il degrado, l’illegalità e la corruzione non sono né un dato costante, né diffuso, né permeante, ma è confermata dall’attività investigativa e dall’attività giudiziaria la presenza ormai stabile della criminalità organizzata, che va distinta dalle organizzazioni di tipo mafioso, che sono altra cosa dal punto di vista giuridico, perché sottendono substrati criminali e sociologici diversi.
Perugia è quindi all’interno di una crisi, forse la più grave da molti decenni ed è questa che alimenta e alimenterà convinzioni, comportamenti e atteggiamenti contraddittori, confusi, distruttivi.
Forse è ora, non solo di rimuovere i prefetti, ma anche di attualizzare le letture, di raffinare le interpretazioni, di cogliere i continui mutamenti di questo fenomeno, ormai da troppo tempo elemento fondante non solo dell’attività criminale ma anche della nostra cosiddetta normalità.
3 luglio 2014
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