Mi sarebbe piaciuto proporre un excursus storico di come l’assistenza sanitaria si sia evoluta in Umbria a partire dalla legge 833, se non addirittura dall’Unità d’Italia. Il tutto sarebbe stato in una ideale continuità con la celebrazione del Centenario della emanazione in Italia della prima legge per la tutela dell’Igiene e della Sanità Pubblica del 1888 tenutasi a Roma presso il Parlamento il 7 dicembre 1988, a cui la Regione Umbria e l’Università degli Studi di Perugia aderirono anche con la realizzazione di una mostra, curata dal SENDES, che illustrò il percorso storico della sanità pubblica in Italia e che culminò con una lezione magistrale del prof. Alessandro Seppilli nell’aula di Montecitorio, alla presenza del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nell’impossibilità di farlo, per mancanza di tempo ma anche per limiti personali, vi propongo una riflessione sull’attuale punto di arrivo della programmazione sanitaria regionale, a partire da una specifico aspetto che è, a mio parere, paradigmatico di come sia evoluta l’assistenza al cittadino. Mi riferisco al primo capitolo del Piano Sanitario Regionale 2009-2011 intitolato “La persona al centro del sistema per la salute”.
Va detto subito che, al momento della stesura del Piano, avevamo a disposizione altre categorie concettuali, a partire da quella di cliente, che dominò, anche in letteratura, negli anni immediatamente successivi al processo di aziendalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, introdotta dalla riforma De Lorenzo del 92/93 (e confermata dalla riforma Bindi del 1999) ma che, fortunatamente, entrò in crisi a fronte del riaffermarsi del concetto che la salute non era una merce, ma un diritto primario, sancito dalla Costituzione Italiana, non oggetto quindi di pure logiche di mercato e quindi di profitto. Il cliente nei fatti non ha diritti se non quelli che gli derivano dal fatto che paga e quindi sceglie le prestazioni che reputa migliori e convenienti.
Avevamo la categoria di utente, che scartammo perché prendeva in considerazione solo la dimensione contingente e occasionale dell’utilizzo dei servizi.
Era ampiamente disponibile, perché largamente usata soprattutto nel linguaggio sanitario, la categoria di paziente, la cui centralità è ripetutamente chiamata in causa, confermando però la oggettivazione della condizione e la subalternità nel rapporto con il potere sanitario, in una dimensione dominata dalla asimmetria informativa, in cui il paziente ha evidenti difetti di conoscenza, vive una particolare condizione psicologica ed è di fronte alla natura probabilistica dell’efficacia degli interventi sanitari.
Avevamo infine la categoria di cittadino, estremamente suggestiva perché affermava la titolarità di diritti e pertanto la legittimità a esigere servizi e prestazioni a prescindere da un rapporto monetario ma in nome di principi generali scritti nella Costituzione e calati in leggi. Eravamo però di fronte In Italia e in Umbria ad un bisogno di salute espresso non solo da cittadini ma anche da soggetti che pur vivendo nel nostro paese e nella nostra regione non avevano diritto di cittadinanza ma a cui andava riconosciuto il diritto alla salute.
Abbiamo scelto, quindi non a caso, la categoria di persona, in grado, a nostro parere, di coniugare soggettività e diritti, cittadinanza e dignità, responsabilità e partecipazione.
Non vorrei però che tutto questo venga letto in chiave puramente nominalistica, di pura accademia del linguaggio, di sofismi se non di intellettualismi.
Considerare la persona come centro del sistema salute significa affermare che non esistono gli anziani ma le persone anziane, che non esistono i cancerosi ma le persone ammalate di cancro, che non esistono i non autosufficienti ma le persone non autosufficienti, cioè esseri umani per i quali la condizione di malato o di disabile o di anziano è solo un aspetto di una vita comunque complessa, dove si è stati anche giovani, anche adulti, anche sani, anche socialmente utili e attivi, con un bagaglio quindi umano di esperienze e competenze che rappresentano una incredibile risorsa per affrontare e gestire al meglio la particolare condizione che quella persona particolare vive in quel particolare momento esistenziale.
Il concetto di persona comporta infatti sul piano terapeutico ed assistenziale interventi che non possono essere standardizzati, ma personalizzati, mirati sui bisogni, le domande e le aspettative di quella persona, quindi informazione, quindi compliance, quindi Piani Assistenziali Personalizzati, quindi Patti di Cura.
E’ quindi una scelta tecnica che diventa indispensabile anche a fronte della transizione demografica, cioè il processo di cambiamento della struttura globale della popolazione prodotto dalla mutevolezza delle fasi di relazione tra tassi di natalità e tassi di mortalità.
Le tendenze demografiche un atto in Italia mostrano un aumento degli anziani sia in senso relativo che assoluto, legato al declino dei segmenti più giovani e che l’80% delle morti avviene nella popolazione anziana, quando nel 1900 solo il 25% delle morti avveniva in soggetti ultrasessantacinquenni. L’aumento delle malattie croniche accompagna inevitabilmente l’invecchiamento della popolazione.
Le malattie croniche sono caratterizzate da eziologia incerta, fattori di rischio multipli, lungo periodo di latenza, lunga durata, cause non infettive, disabilità funzionale associata, incurabilità. Nei loro confronti sono pertanto ipotizzabili gli interventi tesi a diminuirne l’incidenza, a posporre l’insorgenza di disabilità, ad alleviare la gravità della patologia e a prolungare la vita del paziente affetto.
Sul piano strettamente gestionale va attivato non tanto il controllo delle prestazioni o delle strutture erogatrici quanto la gestione coordinata del percorso della singola malattia. La “Gestione per malattia” (Disease management) presuppone infatti il superamento di un sistema focalizzato sugli erogatori di prestazioni ed il passaggio ad un sistema centrato sulla persona. L’intervento socio-sanitario viene quindi a perdere la frammentarietà di un approccio legato alla erogazione della singola prestazione per assumere il carattere di un percorso assistenziale integrato.
E’ la cura coordinata della persona secondo la malattia piuttosto che sugli specifici sintomi, con enfasi sul raggiungimento del migliore esito clinico nel modo più conveniente.
E’ un approccio alla cura delle persone affette da patologie croniche, che prevede la loro educazione a controllare in modo costante il proprio stato di salute e a seguire nel dettaglio la terapia prescritta. Richiede lo sviluppo integrato di linee guida e di procedure per ogni fase del processo assistenziale e l’individuazione e la rimozione di ogni ostacolo alla continuità e all’integrazione di tutte le prestazioni.
Riconoscere e valorizzare la piena soggettività della persona significa pertanto metterla nelle condizioni di conoscere ed utilizzare in modo appropriato un’assistenza sanitaria oggi più ampia e più efficace,di saper gestire malattie croniche potenzialmente disabilitanti, quali ad esempio l’ipertensione, il diabete,l’ artrosi,l’ osteoporosi, l’ipercolesterolemia, oggi identificate in modo più efficace che nel passato, modificare i propri comportamenti personali a fronte i sempre più aggressivi fattori di rischio legati alla sedentarietà, all’obesità, al fumo di sigarette e all’abuso di alcol.
L’enfasi sulla persona comporta però il rischio di una deriva sia sul piano teorico che su quello organizzativo gestionale. Rischia cioè di far prevalere il principio di responsabilità personale, secondo cui l’individuo è il principale responsabile del proprio destino, anche di fronte agli ostacoli e agli svantaggi sociali. Nell’ambito della protezione sociale spetta alla persona il compito di scegliere il sistema di protezione individuale che ritiene più rispondente ai propri bisogni e l’entità e la qualità della protezione dipende in gran parte dalla capacità razionale, dalle conoscenze e dalla possibilità di spesa della persona. Chi ha difficoltà a scegliere autonomamente le soluzioni più appropriate ai propri bisogni e rimane escluso dalle risposte a lui necessarie non può fare ricorso a “diritti riconosciuti”, ma può ricorrere a motivazioni e sentimenti di altruismo e di beneficenza istituzionale e sociale.
Il nostro principio di riferimento è un altro: è il principio di solidarietà, secondo il quale il bene comune può essere conseguito solo con un grande sforzo solidale che vede interessate e responsabilizzate le persone, le famiglie, i gruppi sociali, le imprese, le istituzioni. Questo principio sorregge il nostro Servizio Sanitario Regionale che vuole essere di tipo universalistico, caratterizzato da pari opportunità di accesso ai servizi, da uguaglianza di trattamento ad ogni persona, da condivisione del rischio finanziario per il finanziamento del sistema, basato sulla solidarietà fiscale.
Lievito di tutto questo è la partecipazione, la possibilità per i cittadini di acquisire maggiore potere all’interno della comunità, sia tramite un aumento delle informazioni necessarie a indirizzare scelte e decisioni sia attraverso l’acquisizione di maggior peso riguardo alle decisioni riguardanti la vita comunitaria.
In ambito sanitario comporta il maggiore coinvolgimento delle persone nelle decisioni che le riguardano, al di là del consenso informato, riconoscendo loro il diritto al coinvolgimento nella definizione e nell’attuazione dei trattamenti, la sollecitazione dei suggerimenti, anche critici, la facilitazione della formazione di gruppi di mutuo auto-aiuto tra pazienti e familiari, la redazione di linee guida e di descrizione delle condizioni patologiche e dei trattamenti destinate specificatamente agli utenti. Questo vale anche per gli operatori del sistema sanitario, prevedendo loro la attribuzione di maggiore responsabilità e di maggior autocontrollo.
Come vedete c’è ancora molto da fare, sul piano soprattutto dell’attuazione dei principi in azioni concrete, in gestione, in erogazione, in presa in carico. Ma senza buoni principi non ci possono essere buone azioni.
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