La rivoluzione su procura

I quaranta dragoni francesi che la notte del 16 febbraio 1797 imboccarono al galoppo il Corso nella parte meridionale, seguiti dopo poche ore da mille e cinquecento soldati e da centocinquanta ufficiali, non portarono a Perugia né la Libertà, né l’Uguaglianza e neppure la Fratellanza. Non permisero né coccarde tricolori, né l’abbattimento dello stemma pontificio e quasi immediatamente abbandonarono la città, anche perché perdurava la tregua con lo stato pontificio e si era in attesa dell’esito delle trattative di pace. Dopo il trattato di Tolentino del 19 febbraio i francesi ritornarono a Perugia ed anche questa volta disattesero le aspettative dei giacobini, respingendo la richiesta di costituire la repubblica e per sedare rivolte e malcontento piazzarono due cannoni in piazza San Lorenzo, intimarono la consegna di tutte le armi in possesso dei repubblicani e si portarono via trentasei opere d’arte, tra cui un quadro di Raffaello in Monteluce e due del Perugino in San Pietro. Sgomberarono di nuovo la mattina del 24 marzo, avendo inoltre incassato tre milioni, due in oro e argento da Roma, uno in diamanti da Perugia.

Lo stesso giorno rientrarono in città dalla porta di S.Costanzo, duecento cinquanta militi assoldati dal principe Colonna e con loro rientrarono i tridui, i rosari, le processioni, i gonfaloni, le madonne miracolose. Nel frattempo perdeva valore la moneta di rame ed aumentava il prezzo della carne e degli alimenti e ricompariva la carestia e con essa le rivolte, le rivendicazioni e le insubordinazioni fomentate al nord dai cisalpini che, alla fine dell’anno, giunsero fino a Gubbio e Città di Castello.

L’assassinio a Roma del generale francese Duphot da parte dei dragoni del papa nel palazzo Corsini, sede dell’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, fece di nuovo precipitare la situazione. Il Direttorio di Parigi ordinò al generale Berthier di marciare su Roma e il Consiglio dei Quaranta di Perugia pensò bene di accogliere in città le truppe francesi che vi entrarono ancora una volta la domenica del 4 febbraio 1798, dopo la  partenza della truppa papalina con il governatore pontificio Giacomo Giustiniani. Prima dell’arrivo, alle ore ventidue, di centocinquanta francesi, la fortezza fu consegnata a Fabio Danzetta, fu spezzato lo stemma papale e venne innalzato l’albero della libertà in piazza Sant’Isidoro. Nei giorni successivi fu organizzato il governo provvisorio, creando la municipalità composta da presidente, vicepresidente e diciassette municipali, allargati poi ad altri nove. Tutti si chiamarono cittadini, compresi marchesi, conti, baroni, privati di stemmi, livree, feudi, privilegi. Il vescovo fu chiamato a garantire concordia e obbedienza, unico insieme ai curati a poter predicare, mentre era interdetta la vita religiosa prima dei vent’anni e venivano soppressi i conventi di S.Agostino e Montemorcino e negli altri solo frati e monaci perugini, esuli tutti i religiosi stranieri. Vennero requisiti ori e argenti delle chiese e messi in vendita quattro milioni di beni ecclesiastici. Fu istituita la Guardia Nazionale, con obbligo di servizio di tutti i maschi adulti a partire dai diciannove fino ai cinquant’anni e un Comitato d’istruzione pubblica, con il compito di vigilanza e repressione poliziesca. Per dare un segno evidente e visibile di cambiamento vennero deposte le statue di bronzo di Giulio III e di Sisto V, distrutta quella di Paolo III, bruciati sotto l’albero della libertà i libri dell’Inquisizione e i legni del patibolo.

Il 20 marzo, a Roma, raggiunta il 10 febbraio dalle truppe del generale Berthier, il papa detronizzato era costretto a rifugiarsi a Siena, mentre in città, cinque giorni prima, era stata proclamata la Repubblica Romana, bandita una costituzione, creato una stato dipartimentale di cui uno, il Dipartimento del Trasimeno, aveva come capitale Perugia, con un governo semplificato, con un Prefetto, triunviri, un comandante di truppa ed uno della Guardia Nazionale.

Un nuovo ordine sembrava aver costituito il vecchio, nuovi protagonisti, nuove leggi, nuove istituzioni.

Ma clero e nobiltà rimasero profondamente ostili, feriti dalle innovazioni, soprattutto da quelle a loro danno, spaventati dall’esuberanza di modi e linguaggi, inorriditi dal venir meno di privilegi secolari. Ad essi si aggiunsero i contadini, colpiti dalla proibizione delle questue campestri a nome delle madonna , dei santi, delle anime del purgatorio per feste e pranzi priorali, gli unici che li vedevano protagonisti. Ma soprattutto lontani dal rivendicare il diritto ad una uguaglianza che sembrava loro innaturale, ad una libertà impraticabile, ad una fraternità obbligata. A Castel Rigone si coagulò la prima sedizione, per poi propagarsi nella Val di Pierle, a Preggio, a Reschio e raggiungere la Magione e poi Corciano, con a capo briganti, avventurieri, ladroni. Sempre con queste autorità scoppiò un altro focolaio a Città di Castello e tutto sembrò aver vita breve, per la scarsità dei rivoltosi, per la loro mancanza di armi, di disciplina, di autorevolezza.

Ma le armi cominciarono ad arrivare dalla Toscana, in particolare da Arezzo e maturò nei sediziosi una tattica di guerriglia, un’azione sfiancante di sabotaggio, un logoramento dell’azione militare, soprattutto dei francesi, pochi, demotivati dai cambiamenti avvenuti in patria con l’avvento dell’impero, incerti sul futuro delle loro carriere, scoraggiati dalla poca gloria e dai tanti pericoli.

Così Città di Castello fu assediata e presa d’impeto da tutte le bande, in quell’occasione riunite e determinate, con la benedizione del vescovo e con il clero osannante, anche di fronte alla successive nefandezze e assassini, favorite per di più dalla capitolazione della guarnigione francese.

La reazione del generale La Vallette fu immediata e fu sufficiente l’arrivo di alcune migliaia di soldati francesi, armati di cannone, a provocare la fuga dei rivoltosi dalla città dell’Alto Tevere, che però pagherà un tributo di furti, ruberie, aggiotaggi da parte dei liberatori e del loro capo, che, per questo, sarà processato e degradato. Fu un’altra vittoria senza riposo, senza gloria, con in più un danno all’immagine della rivoluzione che non sarà più riparato.

Non basteranno in tutto il Dipartimento la stretta sui privilegi residui del clero e della nobiltà, la requisizione di armi che non fossero di militari, il coprifuoco, la repressione, la creazione di spazi ad uso pubblico di conventi e monasteri, le feste repubblicane, le elargizioni ai poveri, le messe solenni, i veglioni a teatro, i pranzi patriottici. Perugia visse uno stato di perenne esaltazione, un’alternanza di rigore e tolleranza, in cui trovarono spazio anche inutili intemperanze, facilonerie, insolenze, ma anche ardore e generosità.

Ma il destino si decise altrove. Il re di Napoli Ferdinando invase gli stati romani con cinquantamila soldati, costringendo il generale Championnet, con truppe di gran lunga inferiori, ad abbandonare Roma e trasferire il governo repubblicano a Perugia. Trenta carrozze, scortate dalle truppe francesi, portarono in una città lontana dal teatro di guerra tre consoli, due ministri, l’alto pretore, il comandante della guardia Nazionale e numerosi funzionari. Tempo diciassette giorni dall’entrata in Roma di Ferdinando, avvenuta il 29 novembre, che Championnet vi ritornò, accolto da una popolazione festante, sollevata dal non dover più subire le angherie napoletane.

Ancora più lontana fu la decisione di mezza Europa insieme con l’impero ottomano di coalizzarsi contro Napoleone, in quel momento impegnato in Egitto. Austriaci e russi sconfissero in Lombardia i francesi, costringendoli ad arroccarsi a difesa sguarnendo Napoli, Roma e la Toscana, dove crebbe il brigantaggio che in poco tempo conquistò, con l’aiuto degli austriaci, Cortona e Arezzo. A Perugia non cessarono per questo i riti repubblicani, i festeggiamenti patriottici, l’abbattimento dei simboli dell’antico regime. Si riordinò anche l’Università e si istituì l’accademia nazionale alla Sapienza Vecchia. Solo quando gli austro aretini arrivarono a Borgo San Sepolcro si pensò alla difesa della città, tagliando alberi, spianando alture, riducendo mura e mobilitando un corpo armato di cinquecento volontari. Il comandante della piazza Breissand, ben informato dei disastri militari dei suoi compatrioti in alta Italia e della crescita del brigantaggio, nonché pressato dal governo romano a rendersi disponibile per azioni difensive nel Lazio, lasciò Perugia, dopo aver operato un coinvolgimento del ceto nobiliare nel governo cittadino, affidando la sua difesa ad un numero ridotto di truppe, con a capo l’aiutante Sagaut, buon repubblicano e grande amico della città.

Di fatto Perugia, tra luglio e agosto 1799 era accerchiata da almeno dodicimila armati, arroccati a Città di Castello, alla Fratta, a Passignano, alla Magione, a Corciano, a Tavernelle, al Colle del Cardinale. Il 28 luglio, dopo proclami e intimidazioni di resa, il generale Karl Schneider, comandante degli austro aretini, assalì la città sia dalla parte di Porta Eburnea che di Monteluce, senza però riuscire a sfondare le difese repubblicane. Il Sagaut si asserragliò nella Fortezza, con i giacobini più in vista, lasciando che i nobili aggiunti dal suo predecessore alla municipalità e al governo dipartimentale mediassero con gli assedianti la resa, che non fu onorevole né fu rispettata.

Il 3 agosto 1799 i primi austro-aretini entrarono in Perugia dalla Porta dello Sperandio, senza  incontrare alcuna  resistenza, ma la benedizione del vescovo Odoardi a piazza Grimana. Dopo alcuni arresti arbitrari, furono con metodo ricercati e incarcerati trecentosessantadue repubblicani, per essere giudicati da una corte criminale. L’assedio della Fortezza durò fino al 31 agosto, quando il Sagault ottenne di poter partire con tutti gli onori di guerra con i suoi soldati e con i perugini rifugiatisi a suo tempo.

Dopo diciotto mesi finiva la repubblica perugina, salutata da fuochi artificiali, salve di artiglieria, archi di trionfo, feste da ballo, tridui, tedeum, pontificali, processioni del Santo Anello, voluti e organizzati dal clero e dalla nobiltà, che si sentirono di nuovo padroni della città, anche se sotto il volere e il potere del vicario imperiale e dei suoi ufficiali austriaci.

Fonti:

Luigi Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, vol. II, Unione Arti Grafiche, Città di Castello, 1960

Luigi Catanelli, Pagine di storia perugina 1798-1830, Edizioni Era Nuova, Ellera Umbra, 1999

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