La caduta del governo Prodi segna la fine di una stagione politica iniziata nella metà degli anni ’90, all’indomani di Tangentopoli.
Protagonista, non unico, ma indiscusso, è stato l’Ulivo, inteso non solo come coalizione, ma anche come progetto di ampio respiro in grado di coinvolgere, non solo al suo interno, ma anche in un sistema di alleanze, diverse culture, da quella cattolico democratica e popolare, a quelle post comunista ed ex comunista, a quella socialista di tipo laburista. Una ipotesi moderata, egemonizzata da forze moderate, ma per la sua natura di progetto aperto, dinamico, in grado di offrire spazi se non opportunità a chi moderato non era o per lo meno credeva di non esserlo. Poteva essere una stagione feconda di contaminazioni culturali, di laboratori politici, di sperimentazione di governi della cosa pubblica non solo a livello nazionale ma anche locale. Chi ha vissuto almeno tutta la prima parte di quella stagione può testimoniare un livello inusitato di passione, di coinvolgimento, di elaborazione, corroborato da un avversario, Berlusconi e il berlusconismo, che abbrutiva la politica e il governo a esercizio mediatico di populismo, a concentrazione di interessi pubblici e privati, ad arricchimento sfrenato di pochi, a gestione autoritaria, senza nessuna autorevolezza, dei poteri.
L’Ulivo e il suo principale alleato, Rifondazione Comunista, hanno gestito tutta questa stagione, con due vittorie elettorali, anche se in mezzo a mille contraddizioni e a mille cadute, compresa quella rovinosa del primo governo Prodi, voluta da molti e non solo da Fausto Bertinotti.
Si sono rieditate alleanze e programmi, si sono ridefinite intese, si è comunque governato l’Italia in lungo e in largo, nella maggioranza delle regioni, delle province, dei comuni, recuperando in parte lo sconquasso culturale, sociale ed economico dell’intermezzo berlusconiano.
Il personaggio simbolo di questa stagione è stato, piaccia o non piaccia, Romano Prodi, perché ha messo non solo la faccia e la firma alle varie formule di governo, ma è stato fino alla fine il garante della coalizione, come d’altronde doveva essere.
E’ però l’unico che ha saputo intuire le possibilità che si aprivano e non solo a chi, come lui, si riferiva ad un “capitalismo ben temperato”, ma anche a chi da una stagione di riforme poteva tessere tele per tutelare maggiormente ceti deboli, rafforzare il protagonismo dei soggetti sociali, allargare la partecipazione dei cittadini, sperimentare forme di ridistribuzione della ricchezza, anche se parziali. Ma soprattutto permetteva di cimentarsi con una pratica di governo, facendo crescere una cultura politica che si proponesse non solo la denuncia sociale e la pratica del conflitto, ma anche il concretizzarsi nella gestione della cosa pubblica dell’intransigenza nel rispetto degli obiettivi, del rigore del metodo, della disponibilità al confronto, della piena trasparenza e soprattutto dell’accantonamento di ogni interesse personale o di casta.
Ma solo Prodi ha interpretato tutto questo. Tutti gli altri, partiti e personaggi, si sono accodati in una prima fase per necessità, per ripararsi dall’offensiva di Tangentopoli, in attesa di recuperare forze e risorse e ricostituire rendite politiche. Ottenuto tutto questo, facendo pagare a Prodi il prezzo altissimo della caduta del suo primo governo, hanno ritessuto trame, sollecitato relazioni particolari, ricostituito un ceto politico autoreferenziale e vorace, disinteressandosi di programmi sottoscritti e di impegni assunti con gli elettori.
L’esito principale è stata la morte dell’Ulivo e la sua sostituzione, hic et nunc, con il Partito Democratico, una fusione a freddo di due forze politiche, volutamente e intenzionalmente escludente, chiusa all’esterno, assolutizzante in una concezione della politica intesa come pura gestione e come mediazione di interessi. Lo sfruttamento sociale ( compresi i morti sul lavoro che ne sono la spia più eloquente e drammatica) negato o minimizzato, la contestazione di influenze indebite e di prevaricazioni alla natura laica e democratica dello stato rinnegata e criminalizzata, rimandata sine die una compiuta democratizzazione dei poteri costituenti la Repubblica, a partire dal conflitto di interessi per arrivare alla riforma della Giustizia, passando per nuove regole e limiti alla informazione pubblica e per la ridefinizione di un nuovo sistema elettorale.
La sciagurata dichiarazione di Walter Veltroni di voler partecipare da soli alle prossime elezioni, con qualunque sistema, è stata la conferma di come per il PD ormai la coalizione di centrosinistra, di cui era garante Prodi, era finita e con essa il governo da cui era sostenuto.
A ulteriore conferma la trattativa con Forza Italia, gestita dallo stesso Veltroni per garantire solo a due forze politiche il ruolo di protagoniste e, in caso di vittoria elettorale, il monopolio del governo.
Una crisi dunque annunciata e programmata, che punta a ridefinire tutto il quadro politico, in una logica assolutizzante dei ruoli, delle responsabilità, delle istituzioni e che marginalizza il protagonismo di massa, la partecipazione e la condivisione, la cultura politica diffusa.
Una vera e propria tragedia che però non è stata rappresentata come tale ma, in assenza di un alto senso delle istituzioni, di rigore intellettuale, di qualità morali, di rispetto per la divisione e i limiti dei poteri, è stata rappresentata sotto forma di commedia, recitata da protagonisti secondari, vere e proprie comparse, se non “macchiette”, in nessun modo in grado di recitare ruoli superiori a quelli di ras di provincia, di faccendieri, di uomini e donne utili per tutte le stagioni, tesi solo al loro tornaconto, interessati solo alla loro immagine, indifferenti ai processi (non giudiziari) globali e alle veloci e inarrestabili trasformazioni epocali.
C’è stato anche l’avanspettacolo, protagonista la destra, ricco di lazzi, di urla, di insulti omofobici, di sputi, di aggressioni scomposte, di tracannamenti goliardici, rappresentato in Parlamento, ripreso e diffuso via etere in tutto il mondo.
Romano Prodi non ha preso parte a nessuna di queste rappresentazioni, confermandosi ostacolo ad una politica gridata, mediata, interessata.
Si tratta però di capire anche quanto ne sia estraneo, oltre che ostacolo.
La sua adesione al PD è, a questo punto, perlomeno ambigua, apparentemente contraddittoria, soprattutto con l’immagine di dignità e coerenza che ha dato in questa stagione, in questi ultimi mesi, in questi ultimi giorni.
Si faccia da parte o inauguri una nuova stagione politica.
26 gennaio 2008
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