Giornalisti ed opinionisti sono in visibile sofferenza: confessano di non capire, accusano addirittura vertigini e mal di capo, alcuni si pongono la domanda se esiste davvero l’antipolitica.
Le primarie del Partito Democratico hanno spiazzato osservatori, analisti, commentatori colpiti e fascinati dai vaffa, dalle proteste di piazza, dagli attacchi alla casta, dalle denunce dei privilegi della politica ed una tale risposta di massa appare ancora oggi ai loro occhi inattesa e imprevedibile.
Eppure loro avevano inventato il termine “antipolitica”, diffondendolo urbi et orbi, legittimandolo come uno strumento per descrivere la condizione culturale e psicologica dei singoli cittadini, delle classi e dei gruppi sociali, delle categorie professionali.
In un processo di autosuggestione hanno interpretato tutto con questa categoria, profetizzando orizzonti foschi, un neo fascismo in nuce, populismi minacciosi della democrazia e della pace sociale.
Fino a ricredersi, a leggere con occhi diversi le manifestazioni di Beppe Grillo, a prestare attenzione alle manifestazioni di massa anche se di parte e connotate politicamente, a riflettere sulla partecipazione altrettanto di massa di lavoratori al referendum del sindacato, all’incredibile e perenne credibilità della Marcia della Pace Perugia Assisi.
Ossessivamente nel cono del potere, in cerca di gossip, di sensazionalismi, di cadute di stile, obbligati dalle vendite, dagli indici di ascolto, dagli share, i mass media italiani hanno rappresentato in questa fase il peggio della politica, tenendo conto solamente delle oligarchie, dei ceti politici, delle istituzioni, facendo e disfacendo un immaginario collettivo che a un certo punto, di fronte a volontà e azioni di massa si è rarefatto, rivelandosi inconsistente e inadeguato.
Il problema è che l’antipolitica non esiste, è una categoria artificiosa, fasulla, mentre al contrario tutto è politica, parafrasando il tutto è cultura detto dagli antropologi.
Beppe Grillo fa politica, utilizzando strumenti tradizionali (il comizio pubblico, la comunicazione diretta e immediata) o inediti (il blog) chiedendo di redigere una diversa agenda politica, inserendo temi tralasciati o tenuti volutamente in fondo alla lista, come la corruzione o i costi della politica, la questione energetica o la telefonia. Prima di lui un altro “giullare”, Dario Fo, ha riempito centinaia di teatri con spettacoli di vera e propria denuncia politica, affascinando, seducendo, anche indottrinando coloro che predicavano il conflitto sociale e rivendicavano la centralità operaia nella pratica sociale e politica, scandalizzando coloro che appartenevano ad un ben strutturato sistema di potere, con le sue rendite di posizione politiche, sociali, economiche, culturali. Era politica tout court. Nessuno allora parlò di antipolitica, perché era chiaro il conflitto ed erano chiari i contendenti.
Ma forse è qui il nodo della questione.
L’antipolitica appare come l’altra faccia, strettamente speculare, della politica spettacolarizzata, personalizzata, avulsa da progetti e programmi, ridotta a slogan e parole d’ordine per essere condensata in titoli e sottotitoli, di immediata fruibilità per un popolo di clienti/consumatori/elettori. E’ evocata se non addirittura prodotta come minaccia per rinsaldare vincoli di potere, per presentare mandati elettorali, incarichi di partito e nomine amministrative come le uniche via percorribili per l’azione politica e per giustificare i sistemi di alleanze, anche se impropri e improbabili, con i relativi quattrini, come il male necessario.
Tutto per negare il conflitto, criminalizzarlo se possibile, negare le differenze e le ingiustizie sociali, equiparando ricchi e poveri, vittime e carnefici, tutti ugualmente responsabilizzati verso il cosiddetto bene comune, che è invece cinicamente utilizzato come il bene di pochi, perché è di pochi la ricchezza prodotta dai più e di molti sono i disagi e le sofferenze sociali.
Quello che non si vuol vedere è che invece c’è una diffusa domanda di politica, ma di un’altra politica, c’è una forte richiesta di partecipazione alle decisioni politiche non ingabbiata in formalismi e rituali, una estesa disponibilità a mobilitarsi, per obiettivi chiari e comprensibili, ma anche a schierarsi, a essere parte, a diventare “partigiani”.
Finora a interpretare questo fermento e a tentare di rappresentarlo c’è solo il neonato Partito Democratico, che ha definito a tutt’oggi i vertici degli organigrammi di partito e si è finora affidato alla seduzione delle immagini, ma non alla forza delle idee e dei progetti.
Non c’è la destra italiana, capace al massimo di cavalcare la sfiducia e la protesta, sclerotizzata in un anticomunismo datato e in uno spirito antisociale ottocentesco, prigioniera del suo stesso leader, destinata ad un possibile futuro successo elettorale non per i suoi meriti ma per i demeriti, le titubanze, le insufficienze del centrosinistra,
Non c’è la sinistra italiana, ancora differenziata in tanti rivoli, con tante voci e nessuna autorevole, perché appare evidente la sua autoreferenzialità, la mancanza di un consenso vero e diffuso, la persistenza di linguaggi che appaiono oggi incomprensibili e di piccoli e poveri apparati organizzativi che non riescono ad essere intellettuali collettivi e comunità solidali. Una sinistra costretta ad una perenne difesa e a continui ripiegamenti è quasi logico che non riesca a porsi come interlocutrice della nuova ma anche contraddittoria domanda di politica. Eppure questa sfida è congeniale alla sua natura storica, è funzionale alla sua necessità di ridefinirsi sul piano concettuale e programmatico, è vitale per nuovi radicamenti sociali e possibili egemonie culturali.
Ma deve rifondarsi e diventare un vero soggetto politico o non avrà più ragione di essere.
18 ottobre 2007
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