19 luglio 2007 Fuoco amico

Da sempre i radicali italiani, in particolare con la leadership monocratica Panella-Bonino, hanno dato prova di grande spregiudicatezza. In campo ideologico hanno preteso di coniugare battaglie civili con il liberalismo economico più assoluto,  come se i diritti riguardassero solo la persona e non anche le categorie e le classi sociali e la loro difesa non facesse parte di un processo più generale di equità e giustizia sociale. Nonostante il viso di Gandhi sui loro manifesti non hanno avuto remore a sostenere le guerre “preventive” di Bush ed ogni soluzione guerrafondaia nel conflitto arabo israeliano. Dopo anni di battaglie sostenute e vinte grazie alla sinistra, non hanno avuto scrupolo ad imbarcarsi nell’avventura berlusconiana, condividendone acriticamente valori, programmi, parole d’ordine, per poi abbandonare tempestivamente quest’alleanza alla vigilia della sua sconfitta elettorale e sottoscrivere impegni di governo con il centrosinistra vittorioso.

A freddo hanno avviato un processo di riunificazione con lo Sdi per poi buttarlo all’ortiche alle prime sventure elettorali. Sotto la bandiera dell’antipolitica hanno celebrato i fasti di un ceto politico autoreferenziale, fatti di scomuniche, di cooptazioni, di finti organigrammi, di personalismi, di un utilizzo mirato ed opportunistico dei massa media.

Ma soprattutto hanno sempre ostentato un linguaggio violento, aggressivo, virulento.

L’ultimo esempio è l’attacco di Emma Bonino alla sinistra radicale dell’Unione, stigmatizzata come comunista, facendo di tutt’erba un fascio secondo lo stile appreso dal Cavaliere e successivamente definita conservatrice e reazionaria, ribaltando pretestuosamente il rapporto tra significato e significante delle parole.

Il conflitto in atto all’interno dell’Unione sulle politiche sociali ed economiche del governo è un dato di fatto, come sono un dato di fatto le differenze di cultura politica e di riferimento sociale. L’eterogeneità della coalizione era stata presentata a noi elettori come una ricchezza e un suo punto di forza e a tutte le forze politiche veniva (si diceva) riconosciuta piena legittimità e pari dignità. Il programma elettorale era il patto sottoscritto da tutti e per tutti vincolante e Prodi  ne era il garante per quanto atteneva il suo rispetto e la sua applicazione. Nessuno pensava che questo avrebbe evitato il conflitto al momento di scelte decisive per la qualità della vita di milioni di cittadini, per la salvaguardia dei diritti, per la tutela dei lavori. Ma questo avrebbe comportato l’esplicitazione delle posizioni, la difesa delle proprie argomentazioni, l’evidenziarsi delle criticità e delle debolezze, l’emergere delle fattibilità fino alla necessaria, inevitabile, opportuna mediazione. Quello che c’era da temere era una mediazione di basso se non bassissimo livello.

Le provocazioni , i colpi bassi, le stigmatizzazioni , le censure, i ricatti, le criminalizzazioni erano previste e prevedibili, ma da parte degli avversari, finalizzate ad acuire le differenze e le contraddizioni ed impedire le mediazioni e le sintesi.

Viene allora spontanea una domanda: la Bonino da che parte sta? E da che parte sta Boselli quando, con incredibile tempismo, preannuncia il passaggio all’appoggio esterno del suo partito? E da che parte sta Dini quando dichiara la sua contrarietà, anche in aula parlamentare, a qualsiasi ipotesi di modifica dello “scalone” pensionistico, anche se maturata come decisione collegiale e sancita da Prodi? Da che parte stanno Manzione e Bordon quando sostengono  emendamenti di natura marginale, sicuramente non sostanziali,  sulla legge di riforma della Giustizia, ben sapendo, per i rapporti di forza esistenti al Senato, che questo poteva comportare la fine del governo Prodi?

Non sono domande retoriche.

La politica deve rispondere a domande semplici e chiare, a partire dalla collocazione politica, dalla fedeltà ai patti sottoscritti con gli elettori, dalla coerenza con le proprie dichiarazioni politiche. La politica non è altra cosa dalla società. Se ad ognuno di noi viene chiesta coerenza e linearità comportamentale, onestà intellettuale, rigore morale perché ai politici vengono perdonate incoerenze e contraddizioni nonché trasformismi e opportunismi? Se ad ognuno di noi nel proprio lavoro viene chiesto impegno, professionalità, efficienza e produttività, perché la stessa cosa non viene pretesa dai politici? Perché alla politica viene riconosciuta questa separatezza, questo limbo di impunità e di privilegio, questa astrazione del linguaggio,  questa mutevolezza dei valori. Come è possibile che l’onorevole Previti goda di tutto questo, nonostante sia stato privato dei diritti civili? Come è accettabile che il senatore Selva, attore di un utilizzo illegittimo, improprio, incongruo, irresponsabile, dannoso di un servizio sanitario pubblico, sia ancora membro del Parlamento?

La crisi della politica è alimentata dalla sua separatezza e non tanto dai suoi costi, che potrebbero essere legittimi (e sopportabili) se rapportati alla democrazia e ai suoi vantaggi.

Se si tornasse alla società e a farla quando manca o è carente, se si tornasse a programmi e progetti, a maturare decisioni e a praticare scelte, anziché legittimarsi solo con l’enunciare presunte compatibilità economiche o finanziarie, con il dichiarare confuse identità riformiste o restauratrici o con il richiamo a fantomatiche appartenenze etniche o culturali, la politica non sarebbe in crisi ed Emma Bonino starebbe a casa. E sarebbe in buona compagnia.

19 luglio 2007

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