Nei primi anni sessanta un anziano muratore che lavorava alla ristrutturazione della mia casa, prima di uscire dal cantiere per trasportare a spalla materiale edile, si mise il capello perché non poteva uscire in strada senza coprirsi il capo, nonostante gli fosse di impaccio e fastidio. Era una consuetudine ferrea per quella generazione nata agli inizi del secolo scorso, ereditata per di più da quella precedente, per cui una persona, chiunque fosse e di entrambi i sessi, non poteva uscire a capo scoperto (così come non poteva mai avere il capo coperto sotto un tetto), perché la sua credibilità e onorabilità era legata anche al borsalino o al berretto, al cappellino con fiori e veletta o alla paglietta, al basco se si era in officina o al cappello di carta di giornale nel cantiere. Questo costume è letteralmente scomparso al giorno d’oggi, i capelli sono al vento e non si salvano dal sole e dalle intemperie neanche i sempre più numerosi crani rasati. Rimangono, come copricapo status symbol di alcune generazioni e di specifici gruppi etnici, i berretti da baseball, che sono i soli che mantengono per molti anche un valore d’uso.
La stessa sorte del cappello o del cappellino sembra che oggi sarà seguita da un altro capo d’abbigliamento: la cravatta.
Dopo un referendum interno, negli uffici dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) è stato adottato uno stile di abbigliamento più informale durante l’estate, dimettendo giacca e cravatta, binomio finora indissolubile non tanto di eleganza quanto di dignità e di decoro nella vita pubblica.
Il tutto motivato dal risparmio energetico ottenuto grazie ad un uso più contenuto dell’aria condizionata, perché un solo grado in più negli edifici consente di risparmiare circa il 9 per cento di energia elettrica ed una proporzione equivalente di Co2.
Non è in verità la stessa motivazione che ha portato Sergio Marchionne, super manager della Fiat, a presentarsi in maglione giro collo alle conferenze stampa o Silvio Berlusconi ad arringare le folle nei comizi a Verona senza la cravatta in solidarietà con il candidato sindaco leghista, che considera il bon ton nel vestire e nel parlare retaggio di Roma ladrona. Ma soprattutto non hanno la stessa motivazione milioni di persone che ormai, sin da giovani, hanno dismesso questo capo di abbigliamento da almeno tre generazioni, prima solo nella quotidianità del loro mondo, per adeguarsi nelle occasioni socialmente formali e impegnative e poi per abbandonarlo completamente anche durante gli esami di maturità o al colloquio per un posto di lavoro o alla tesi di laurea o durante altre cerimonie sociali di iniziazione o di promozione.
La cravatta ha da sempre aggiunto al vestiario una nota puramente estetica senza alcuna funzionalità, per coprire l’alta abbottonatura della camicia, quella sì a chiudere rigidamente il collo, per impedire la visione di velli mascolini o di rotondità femminili, a nascondere il corpo e i suoi caratteri sessuali secondari, a relegare quelle visioni alla dimensione privatissima dei riti matrimoniali o mercenari, essendo molte parti del corpo “intimità”, “pudende”, “estremità”.
La liberalizzazione dei costumi, una sana emancipazione sessuale, lo svelamento del corpo maschile e femminile, lo scandalo riservato alla sola violenza e prevaricazione di corpi e di menti, hanno accorciato, aperto, alleggerito, ridimensionato i capi di abbigliamento, valorizzandone l’essenzialità e la praticità, creando anche nuovi stili ma senza assurde rigidità o riprovazioni morali.
E’ per questo che sta scomparendo la cravatta, come prima era scomparso il “cravattino” o la “farfalla”.
Lasciamo quindi perdere il risparmio energetico che è cosa troppo importante per essere affrontata con l’eliminazione di inutili estetismi o con l’affermazione di nuove mode.
La questione energetica non nasce con la cravatta, o con la doccia quotidiana o con il tirare lo sciacquone, o con il lavoro (e la vita) in ambienti salubri in ogni stagione dell’anno o con il soddisfacimento del diritto alla mobilità per il lavoro, le relazioni sociali, il tempo libero.
I singoli individui hanno una minima responsabilità nel degrado ambientale e nelle crisi energetica perché vanno chiamate in causa scelte collettive, decisioni governative e parlamentari, pianificazioni strategiche nazionali e internazionali, accordi interplanetari.
Va interrotta la deforestazione massiccia dei grandi polmoni verdi del pianeta, va impedita la desertificazione di interi continenti, vanno modernizzati i grandi processi produttivi sul terreno dei loro consumi e dei loro sprechi energetici, nonché della loro capacità inquinante, va contenuto il consumo di territorio da parte di una urbanizzazione massiccia e sregolata e va ricercata una soluzione alternativa all’auto privata a motore termico.
I beni comuni, come ad esempio l’acqua, non sono minacciati tanto da noncuranza e irresponsabilità individuali quanto dallo loro privatizzazione, che li derubrica a merce e ad occasione di profitto, di cui il mercato è l’unico garante e con esso le uniche leggi diventano quelle della domanda e dell’offerta.
Le guerre, sempre più numerose e devastanti, non solo spengono vite umane, ma spazzano via ambienti naturali e sociali, consumano enormi quantità di energia per scopi puramente distruttivi e, sterilizzando interi territori, impediscono la vita per anni a venire.
Il cambiamento di stili di vita non si basa sulla colpevolizzazione o sulla criminalizzazione individuali, ma semmai sulla ridefinizione della scala e della gerarchia dei valori collettivi, sull’aumento diffuso di conoscenze, sulla pratica anche individuale di obiettivi credibili e condivisi, validati socialmente, legittimati politicamente. Sono intere società che devono muoversi e con esse governi, assemblee elettive, alleanze internazionali, comunità scientifiche, associazioni, partiti politici, forze sindacali e sociali.
Le cravatte sono un’altra cosa, riguardano altri problemi ed altre priorità, insieme alle ghette, ai busti con le stecche di balena, ai mutandoni di lana, ai cappelli a cilindro e a tutti gli altri ammennicoli della nostra vanità. La questione energetica è ben altro.
3 luglio 2007
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