Nel 1991, a fronte dello scioglimento del PCI in favore di una nuova identità politica che a lungo fu chiamata “la cosa” e che solo ora, con la nascita del Partito Democratico, assume una più compiuta definizione, era pienamente legittimo che chi ancora si riconosceva non tanto nei simboli quanto nella storia e nelle battaglie politiche comuniste avviasse un processo che avesse come obiettivo la rifondazione del pensiero e dell’azione comunista. Era un intento che, al di là di possibili velleitarismi, derivava dalla consapevolezza che tanto avevano fatto i comunisti e le comuniste italiane per la democrazia, per lo stato di diritto, per la solidarietà sociale, per la crescita culturale, per la modernizzazione e la trasformazione di questo paese da pretenderne non solo il riconoscimento e l’apprezzamento, ma la continuità, mettendo comunque mano agli errori e agli orrori che erano stati compiuti in nome del comunismo nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”, ma anche in quelle terre dove forte era il conflitto sociale e la presenza comunista organizzata, come l’Italia.
Qui stava la legittimità della rifondazione comunista, prima ancora della sua opportunità e della sua stessa fattibilità. Senza la rifondazione comunista la rimozione che andava operando il gruppo dirigente dell’ex PCI avrebbe liberato, solo sotto forma di fantasmi se non di mostri, il travaglio, gli interrogativi, le incertezze che da tempo attraversavano il movimento comunista in Italia (e non solo), favorendo solo pentitismi, dissociazioni, negazionismi e non una riflessione anche spietata ma fatta alla luce e non nel sonno della ragione.
Questo percorso fu all’inizio esaltante per l’entusiasmo, l’attenzione, la simpatia che andò evocando, nonostante la povertà di mezzi e di persone, la debolezza organizzativa, la solitudine politica, l’antagonismo feroce degli ex-compagni.
Era tornato difficile essere comunisti, faticoso l’accreditarsi come tali dopo l’abiura di tanti che rafforzava il disprezzo di molti, problematico il convincere masse disorientate dai mass media e distratte dal consumismo, complesso il comunicare in una società dove la comunicazione indiretta e mediata aveva sostituito quella diretta e immediata, pressoché impossibile prefigurare uno scenario di cambiamento senza avere un blocco sociale di riferimento, un insieme di alleanze, presenze istituzionali, punti di riferimento internazionali.
C’era però uno stato di necessità che rafforzava ulteriormente la legittimità della rifondazione comunista e che partiva dalla consapevolezza che l’abiura del comunismo avrebbe prima o poi comportato l’abiura del socialismo e poi di ogni valore e categoria di sinistra quale ogni idea di progresso, di emancipazione sociale, di uguaglianza di diritti, di solidarietà collettiva. Si sarebbero criminalizzati il conflitto, la critica, il dubbio, messi in discussione i concetti di bene comune, di cittadinanza, di uguaglianza, di primato della persona, di diritto alla salute, di socializzazione dei saperi, di partecipazione.
A partire da allora dalla legittimità si sarebbe dovuti passare alla fattibilità della rifondazione comunista, al ridisegnare i tratti essenziali di una società comunista nel XXI secolo, tutta altra cosa rispetto ai modelli realizzati nell’est europeo o in Asia, a praticare obiettivi prefiguranti nuovi assetti sociali e politici, a individuare i soggetti protagonisti della trasformazione e a interpretare i nuovi poteri, a definire una strategia di cambiamento della politica, dei suoi strumenti, del suo linguaggio, a selezionare gruppi dirigenti e a promuovere una presenza sociale diffusa. Il tutto strettamente connesso alla capacità di interpretare i cambiamenti sociali, le rinnovate sfide culturali, i diversi assetti produttivi e finanziari, la globalizzazione dei mercati, le innovazioni tecnologiche, la ridefinizione del potere e dei poteri promossi da un capitalismo in crisi ma, forse per questo, in perenne trasformazione, destinato comunque, in questa fase, ad una incontrastata egemonia.
In questi sedici anni è successo tutt’altro.
Anziché aggregare tutti coloro che si ponevano l’obiettivo della rifondazione comunista, garantendo una collettività di liberi ed uguali, anche se diversi e in grado di condividere una inevitabile pluralità di letture del marxismo e dei vari comunismi, si è assistito , a partire quasi da subito, ad una diaspora che appare a tutt’oggi ancora inarrestabile, a cominciare dai Comunisti Unitari svaniti nel mare magnum del PDS poi DS oggi PD, ai cossuttiani divenuti PdCI, a Ferrrando e Grisolia divenuti PCL, a Cannavò e Turigliatto che diventeranno qualcosa d’altro a settembre, seguiti sembra a ruota dalla componente Ernesto, passando per i tanti abbandoni solitari e silenti, non illuminati dalle telecamere né ripresi dalla stampa. Il tutto a significare l’ormai scarsissimo potere aggregante dei valori, dei metodi, delle parole d’ordine, degli obiettivi comunisti, soprattutto se ridotto a semplice richiamo, enunciazione pedante, assunzione di sola e fideistica coerenza. Alla luce soprattutto di una pressoché assoluta mancanza di elaborazione di altre categorie concettuali, di altri paradigmi interpretativi, di altre pratiche politiche, di altre soluzioni organizzative e associative, di altri modi di fare società e cultura.
Ma come poteva avvenire tutto questo senza una rivista teorica o una fondazione culturale o un centro studi o una scuola di partito che non solo elaborassero, ma mettessero a leva intuizioni originali come quella bertinottiana sulla non violenza, rimasta un soliloquio incomprensibile ed inascoltato? Perché non investire su questi strumenti anziché su un quotidiano, costosissimo e poco letto (come tutti i quotidiani), senza fare una concorrenza mortale ad altri giornali di sinistra ed in particolare al Manifesto, che poteva essere (e in questo caso il volere è potere) un efficace strumento, già giornalisticamente avviato e politicamente credibile, della rifondazione comunista?
In questi sedici anni, alla luce della crisi della politica, che è in atto non da ora, anziché ripensare la forma partito, le sue articolazioni sociali e i suoi collegamenti istituzionali, si è riproposto un partito chiuso e autoreferenziale, ingessato nelle sue componenti interne, con gli eterni meccanismi della cooptazione per i rinnovi dei gruppi dirigenti, con centri decisionali ristretti, con organismi di controllo pletorici e resi improduttivi da rituali logori, con un confronto ed un dibattito interno occasionale, marginale, limitato da formalismi e condizionato da esiti predeterminati.
Altre domande: la presenza istituzionale e l’appartenenza all’esecutivo nazionali oltre che a quelli locali, è stata vissuta in questi sedici anni come occasione per un apprendimento delle pratiche di governo, per muoversi con competenza nella allocazione delle risorse e nella ripartizione della ricchezza, per saper individuare le risposte congrue e appropriate sul piano legislativo ed operativo, per essere in grado di pretendere uno scenario di trasparenza e di efficacia, di programmazione e partecipazione?
E’ stata l’opportunità per l’acquisizione di una cultura di governo da mettere a disposizione per la riforma dello stato e della pubblica amministrazione, per sostenere l’intervento pubblico nei gangli vitali e strategici dell’economia e della finanza, per ridefinire il welfare, per difendere e rilanciare la scuola pubblica, per tutelare i beni comuni ?
O è stata una presenza di rappresentazione e non di rappresentanza di bisogni sociali, di fatto marginale, di natura puramente ideologica, senza neanche aver prodotto un insieme di leggi, di provvedimenti, di buone pratiche esemplari e cariche di valore simbolico? A che serve alla rifondazione comunista l’alta carica di Presidente della Camera, fortemente condizionata dal ruolo istituzionale, quando si potevano pretendere due ministeri importanti, e non uno solo, per di più risultante da un’operazione di riassetto e ridimensionamento di poteri?
Non era più utile Bertinotti (o chi per lui) al Parlamento Europeo a tessere le fila della Sinistra Europea, ad attivare canali di comunicazione, ad aprire tavoli di lavoro, a concordare codici e linguaggi comuni, a programmare iniziative, per definire a livello continentale i connotati del comunismo del XXI secolo, dichiarando che è ancora legittimo, opportuno, necessario, fattibile?
Sarebbe stato un terreno fertile soprattutto oggi per i nuovi fermenti a sinistra, prodotti dalla nascita del PD e con le conseguenti e legittime aspirazioni di unità di azione, di coordinamento, di integrazione tra diverse forze politiche, che avrebbero trovato se non strade, almeno sentieri identificabili e già percorribili e non sarebbero costrette, come invece sono oggi, da un terribile stato di necessità.
Tutto questo si sarebbe potuto prevedere, ma si sarebbe anche dovuto prevedere.
Ma neanche questo è stato fatto.
14 giugno 200
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