1° giugno 2007 Un uomo solo al comando

Ho sempre pensato che il problema principale di un partito fosse quello di definire la propria identità, connotare i propri valori, esplicitare i propri obiettivi, definire programmi e progetti, individuare alleati e interlocutori, differenziarsi dagli avversari, dichiarare, se non appartenenze, almeno simpatie ideali, direi anche ideologiche.

Soprattutto se si tratta di un nuovo partito che vuole essere un partito nuovo, come dichiarato dai suoi propositori, che rivendicano, in ogni sede, l’originalità del progetto e l’assoluta necessità di riforme istituzionali, trasformazioni sociali, rivoluzioni culturali di cui vuol essere protagonista, forte anche dei cambiamenti dell’essere partito e dell’agire politico.

Che c’entra allora il dibattito serrato, lo scontro, le divaricazioni, i contenziosi sullo specifico problema della leadership del costituendo Partito Democratico, essendosi solo da poco aperta la fase costituente ed essendo ancora in atto il processo di definizione dell’identità e delle appartenenze del nuovo partito?

Perché affannarsi e dividersi sul segretario (o sullo speaker o sul presidente) quando ancora non sono definite le regole interne, le norme di partecipazione, le modalità e i luoghi delle decisione, i criteri di selezione e formazione dei gruppi dirigenti, cioè la natura democratica del nuovo partito e il patto che lega i propri aderenti?

Un segretario è l’espressione di un corpo e di un’anima politica, ne deve esprimere le volontà e i sentimenti, ne deve rappresentare le passioni civili e gli interessi legittimi, altrimenti o è un prefetto nominato dall’alto o è un presidente di un consiglio d’amministrazione o è il capo di un condominio o è un capobanda temporaneamente vincitore di una guerra di bande.

In un momento come questo dove sono in ballo il lavoro e i diritti, la guerra e la pace, l’integralismo religioso e il razzismo, la globalizzazione dei mercati e la formazione di comunità sovranazionali, il surriscaldamento del pianeta e i nuovi fabbisogni energetici, come può essere posto al centro dell’attenzione e del dibattito politico del Partito Democratico la nomina di una figura che nasce già priva di autorità e autorevolezza, perché incapace non solo di dare risposte a questi e ai tanti altri problemi, ma neanche di predicarli, di metterli all’indice, di inserirli nell’agenda politica, perché il nascente nuovo partito non lo ha fatto, né intende farlo ora, né dichiara quando e come vorrà farlo?

A meno che il nuovo partito non debba nascere e definirsi all’interno dell’azione del governo Prodi, in quel cantiere fin troppo ricco e animato, attraversato da grida e da voci, dove si dice di sperimentare l’innovazione e di prefigurare il cambiamento, dove si annunciano ma non si praticano iniziative e progetti per il superamento del precariato, il rinnovamento del welfare, la definizione dei nuovi diritti civili e dei nuovi doveri sociali (tra cui pagare le tasse), il garantire il potere d’acquisto di salari e pensioni, il potenziamento dei servizi primari, il risanare la politica e la giustizia e mille altre cose di cui ancora non si è accorto nessuno e di cui ovviamente il segretario, il capo, il leader, lo speaker, il presidente è Romano Prodi, il solo decisore, il solitario interprete del paese, l’unico garante allo stesso tempo dell’azione politica e della governabilità.

C’è in tutto questo una sinistra e inquietante simmetria con il capo dell’opposizione, quasi lo stesso delirio di onnipotenza, la stessa concezione di se stesso come insostituibile e indispensabile, in grado di giocare innumerevoli ruoli, basta essere un  presidente.

Il presidenzialismo è il sintomo più evidente della malattia della politica, il prodotto della rimozione di ogni tensione ideale, di ogni speranza di trasformazione sociale, dell’appiattimento alla gestione dell’esistente, del suo inaridimento ad affarismo, clientelismo, carrierismo. Ha già prodotto i sindaci podestà e il decisionismo dei governatori regionali, il ridimensionamento del ruolo e dei poteri delle assemblee elettive e nel mentre ridicolizzava la partecipazione e  intaccava la democrazia, chiedeva la trasformazione dei partiti in macchine elettorali, produttrici solo di consenso, non più intellettuali complessivi, né comunità di liberi e uguali, né scuole di alfabetizzazione politica, né luoghi di promozione sociale, né spazi per l’elaborazione del dubbio e l’esercizio della critica.

Di tutto questo anche il Partito Democratico sembra essere, dopo il partito azienda di Berlusconi, l’autentico interprete. Non a caso oggi cerca, disperatamente e ossessivamente, il suo capo, sollecitando le sue varie componenti e le sue diverse culture non a sintesi di contenuti o di metodi, ma solo di ruoli e di interpreti.

1° giugno 2007

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