Allora è vero. Quella che sembrava una utopia, un sogno di pochi generosi, un’aspirazione inconfessata di molti, una necessità avvertita dai più ma offuscata da particolarismi e da titubanze sta per diventare una realtà. E’ questione di mesi e il Partito Democratico vedrà la luce.
Tutto bene, tutti contenti? Non sembra.
I primi a non sembrare contenti sono gli stessi promotori del progetto, dai quali non traspira un filo di entusiasmo, una traccia di emozione, un segno di passione, ma solo il ribattere, in maniera pedissequa, alle obiezioni, alle riserve, ai distinguo, alle perplessità che vengono sollevate da più parti, come se la nascita del Partito Democratico sia contrassegnata più da segni negativi che positivi, una connotazione quindi da rovesciare con una serie quasi ossessiva di giustificazioni, di rassicurazioni, di interpretazioni ma non da proposizioni, da scelte di campo, dall’individuazione di priorità, dalla definizione di obiettivi, dall’illustrazione di programmi. Non c’è mai una traccia di un sorriso, un’espressione di compiacimento, una manifestazione di orgoglio nelle facce di Fassino e Rutelli, di D’Alema e Marini, di Veltroni e Franceschini, e dei tanti dirigenti diessini e diellini, come se a prevalere fosse la preoccupazione, l’incertezza, il timore per una operazione sostenuta essenzialmente dalla volontà del cambiamento, dal gettare nuove basi, dal costruire nuovi edifici e dal definire nuovi assetti politici, senza avere sufficientemente definito per chi e per cosa essa è buona e giusta.
Non si spendono parole né per soggetti sociali, né per condizioni materiali, né tantomeno per schemi ideologici, per ambiti ideali, per categorie concettuali. Sono o tutte già scontate nei Dna dei partiti costituenti o tutte da ricontare, ma quando, come, da chi? A meno che non si continui a fare affidamento sul “pensiero debole” che ha contrassegnato la fine del vecchio e la nascita del nuovo millennio, marcando il distacco se non il rifiuto delle utopie e delle ideologie novecentesche (se non ottocentesche) in favore di un pragmantismo politico guidato da veloci e parziali indagini sociali e da altrettanto veloci e parziali sondaggi di opinione, totalmente subalterno ad accordi finanziari e trattati commerciali nazionali e internazionali, presentato e rappresentato nei mass media e sottoposto a verifica (solo finale) in periodiche e rituali tornate elettorali.
Non una parola sulla forma partito, sulla formazione e legittimazione dei gruppi dirigenti, sulla natura dei luoghi della decisione, sui criteri di gestione, sulle modalità della partecipazione e del controllo degli iscritti e di tutti coloro che senza essere iscritti saranno solidali, simpatizzanti, amici, elettori. Aleggiano nell’aria solo le parole del “padre nobile” nonché unico leader (per ora) del Partito Democratico, Romano Prodi, che annuncia sibillino che il PD non sarà contro i partiti ma dovrà essere oltre i partiti.
Tutti declamano comunque che dovrà essere un luogo caratterizzato dalla più ampia espressione sociale, politica e culturale, aperto verso la società, come se l’apertura non fosse il risultato di forme organizzative, schemi mentali e concettuali e azione di difesa e promozione di diritti e interessi, che vanno innanzitutto dichiarati per poi essere agiti.
Intanto pezzi di questa società sono indisponibili, sia chi è vicino (Sdi & socialisti, Radicali) o vicinissimo (sinistra DS) o alternativo (Prc, PdCI, Verdi). Non sembrano entusiaste le forze sindacali confederali, né tantomeno alcuni importanti sindacati di categoria, a partire dalla Fiom. Vanno interpretati gli atteggiamenti attuali (al netto di possibili opportunismi) del movimento cooperativo, del terzo settore, dell’associazionismo sociale, culturale e ambientale, così è altrettanto incognito (anche per sue contraddizioni) è l’atteggiamento del movimento pacifista. Tiepido, se non indifferente, sembra essere il variegato mondo intellettuale, in verità svagato e distratto ormai da molti anni.
Oppure l’apertura di cui si parla non è tanto rivolta a ben identificabili interlocutori sociali, in grado di essere non solo un bacino elettorale quanto una vera e propria base sociale, da garantire e da rappresentare, dal cui consenso derivare forza e legittimità, ma il popolo indifferenziato, non articolato in classi e gruppi sociali, neanche l’insieme di cittadini, ma di clienti, di consumatori, di spettatori, la “gente” insomma, come da versione postmoderna? Se è questo il soggetto di riferimento non c’è niente da meravigliarsi se il nuovo partito appaia come il frutto di “una fusione a freddo”, come il risultato di un’operazione di ingegneria politica, un assemblaggio di ceto politico, l’integrazione di soli gruppi dirigenti, la mediazione di diversità con lo stemperamento ideale ed ideologico e il cambiamento di cui vuole essere interprete riferito più alle formule e alle tattiche di governo che alla ridefinizione del lavoro e del welfare, alla ripartizione della ricchezza, alla socializzazione dei saperi, alla universalizzazione dei diritti.
Tutto è ancora da vedere, perché niente è fatto, mancano ancora i congressi di scioglimento e le assemblee costituenti, non sono stati sottoscritti i documenti programmatici e le sintesi politiche, ma si avverte comunque la svolta netta di un linguaggio e di uno stile, la modifica di atteggiamenti e comportamenti, una diversa interpretazione della soggettività e della pratica politica. Per alcuni, molti forse, basta e avanza. Per altri è solo l’inizio della fine.
18 aprile 2007
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