6 aprile 2007 Il suicidio dei giovani

Due miei compagni di scuola si sono suicidati.

In terza media Mauro ingoiò la varichina e non feci in tempo a vederlo per l’ultima volta, perché arrivai troppo tardi al funerale e la cassa era già stata chiusa. Ero sgomento per quel gesto, ma non meravigliato. Mauro non era un ragazzino come me. Portava già i pantaloni lunghi, ed erano bleu-jeans, pantaloni allora proibiti ai più, perché simbolo di rivolta e di alterità e durante la ricreazione schiariva quel tessuto, allora ancora grezzo e ruvido, con la lama del coltello che portava sempre con sé. Mauro era comunista ed insieme a Ferruccio, anche lui giovane comunista, comprammo un giorno il Secolo d’Italia per bruciarlo pubblicamente davanti alla scuola al momento dell’ingresso delle scolaresche.

Mauro era diverso da tutti noi, anche nei ragionamenti ma soprattutto nei giudizi, secchi e taglienti e non solo nei confronti dei professori, ma anche e soprattutto degli altri compagni di classe, quelli ricchi soprattutto.

Mauro era diverso ma nessuno si azzardava a ironizzare su questo né tantomeno a tormentarlo, anche perché lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. Mauro sapeva il fatto suo ed appariva determinato e forse era fragile e disperato, ma quel gesto estremo non lo sminuì ai miei occhi, anzi né rafforzò l’immagine e ne scolpì il ricordo.

Americo si uccise dopo il liceo, all’impatto con l’università. Non era né forte né determinato, barbuto e stempiato anzitempo, un po’ obeso e impacciato, oggetto di scherzi da parte di alcuni dei compagni di classe, ma erano gesti bonari, anche perché Americo non era escluso da giochi e compagnie, era parte della classe e dei suoi rituali, al punto che gli fu fatale l’interruzione di quella esperienza di convivenza, forzata sicuramente, ma ricca di scambi e di comunanze. Anche Amerigo era diverso ma la sua alterità era parte integrante di quell’insieme difforme ed eterogeneo che era una classe liceale negli anni sessanta e che credo risaltò tragicamente, per diventare insopportabile, nel clima individualistico e competitivo dell’università, con la scomparsa di ogni dimensione comunitaria, con tempi e ritmi di studio e di vita svincolati da orari e da scampanellate quotidiane, da condividere comunque con almeno altre venti persone.

Anche quel suicidio mi ammutolì ma non mi meravigliò, perché era sempre e comunque una soluzione contemplata, addirittura nobile, se non eroica. Un gesto che riabilitava una persona, le ridava un protagonismo fino ad allora negato, riscattava cedevolezze e smarrimenti. Tanto è vero che Giuseppe, sempre al liceo, teorizzava, perentorio, che il suicidio era un gesto di grande lucidità, non certo di smarrimento.

In entrambi i casi non mi posi mai la domanda del perché e non solo per l’impossibilità a rispondere a quella domanda ma per il rifiuto a cercare colpevoli e responsabilità, né in persone né in istituzioni, individuando una possibile ragione di tutto ciò nella condizione esistenziale umana e in un’organizzazione sociale che non forniva alcuna opportunità, se non di emancipazione neanche di sollievo.

I suicidi di adolescenti di oggi, sicuramente più distanti nel tempo e lontani dal mio spazio affettivo, non mi sollecitano le stesse reazioni, non toccano le stesse corde emotive, non giustificano le stesse razionalizzazioni. Il tutto è sicuramente favorito da una rappresentazione mass mediologica che è universalmente schierata nella individuazione più puntuale possibile di colpe e colpevoli, nel dare volto a carnefici e oppressori, nel rappresentare contesti sociali e familiari, nel denunciare carenze affettive ed educative. Tutto è politically correct, ma nessuno si sofferma a riflettere di come questi suicidi si presentino unicamente come vie di fuga, come esiti di sofferenze prolungate, cessazione di tormenti e persecuzioni divenuti insopportabili e di come appaiano privi del carattere della protesta, della denuncia, dell’affermazione di un sé negato e vilipeso. Non è tanto l’apparente “banalità” delle persecuzioni a meravigliare, perché la violenza è sempre e comunque feroce e insopportabile, indipendentemente dalle modalità e dagli strumenti di cui si serve, quanto la mancanza di una reazione vitale da parte della vittima, la incapacità di cercare alleanze, l’impossibilità di trovare solidarietà, la difficoltà a riscuotere consenso intorno a sé, come se la resistenza non fosse culturalmente ammissibile prima ancora che legittima.

E’ questo che mi ammutolisce e mi sgomenta oggi. Non solo la morte, che è sempre insopportabile soprattutto di un giovane, quanto la assoluta impossibilità di marcare la differenza tra una violenza voluta e una violenza subita, come se non esistesse alcuna possibilità di riscatto, anche negando se stessi, ma comunque affermando se stessi. I suicidi di questi giovani mi sembrano la logica continuità di una violenza infinita, individuale e di gruppo, a cui niente sembra contrapporsi, ma non la polizia o i carabinieri (anche), o le sospensioni e lo stigma sociale (anche), l’efficacia dei sistemi educativi scolastici e familiari (anche) etc., ma la resistenza della vittima, l’affermazione di sé come soggetto libero, uguale, fratello.

O forse mi sto confondendo, il mio è solo un tentativo (di ieri e di oggi) di contenimento dell’ansia che la violenza scatena, anche quella prodotta contro sé stessi, e forse il suicidio non è mai un atto eroico, né sublime, ma molte volte una triste necessità, reso anche banale dalla violenza che lo induce e lo incoraggia e quella sì è sempre antieroica e oscena e su questo non mi sto confondendo.

6 aprile 2007

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