8 marzo 2007 Una eterna primavera

La stentata e sofferta fiducia ottenuta recentemente dal Governo Prodi al Senato ha dato la sensazione della fine di una stagione politica.

La stagione di Prodi ma anche di Berlusconi, dell’Ulivo e della Casa della Libertà, del bipolarismo all’italiana con un centro sinistra e un centro destra speculari e contrapposti, in alternanza tra loro.

Appare finita la stagione di Romano Prodi, ormai vicino a perdere la guerra dopo aver vinto ben due battaglie (elettorali), condannato ormai a galleggiare in un pantano di immobilismo e di interdizioni, tarpato nella progettualità, costretto a rimuovere contraddizioni e a omettere problemi, ingoiato da una transizione che lui stesso aveva promosso e che lui stesso voleva chiudere. Se così è, saranno altri a portarla a termine, ma non Silvio Berlusconi, in crisi evidente di leadership nella sua monca coalizione, nonostante i bagni mediatici, logorato dalla lontananza dal potere, infiacchito dall’età avanzata, tra poco senza più i comunisti, gli ex comunisti e i post comunisti come nemici storici, a cui attribuire malefatte, orrori, nefandezze e contro i quali sollevare anatemi e folle in delirio.

Sembra finita la stagione dell’Ulivo, l’esperimento di coniugare diverse culture, quella laica e quella cattolica, il centrismo democratico con la sinistra, la sinistra riformista con quella

radicale, in una sintesi politica guidata dalla Costituzione, orientata verso il welfare, attenta al lavoro e ai diritti, fortificata dalla concertazione sociale e dalla partecipazione popolare.

Ma sembra finita anche la stagione della Casa delle Libertà, ormai ridotta a due soggetti in aperta conflittualità tra loro, vittima di un estremismo virulento, dominata da un sovversivismo antistituzionale, incapace di prospettare un progetto comune, universale, essendo preda di interessi particolari, di pochi, di alcuni.

Con loro finisce il bipolarismo, voluto da (quasi) tutti ed oggi negato da tutti, auspicato da (quasi) tutti i partiti come panacea ai mali del nostro sistema politico, indicato come la condizione necessaria della governabilità, corroborante, grazie all’alternanza tra i due poli, addirittura della democrazia.

Ormai si torna a parlare apertamente di un centro politico forte e articolato, moderato perché attento solo al mercato e alle sue leggi, rispettoso dei poteri e delle gerarchie, fedele alle alleanze internazionali militari e commerciali, disponibile alle liberalizzazioni economiche, alle concentrazioni finanziarie, alla piena libertà di impresa, al ridimensionamento del welfare e alla sussidarietà, al contenimento del pubblico nel campo economico, sociale, assistenziale, previdenziale. Un centro moderato nel linguaggio politico, nelle proposte legislative, negli interventi sociali, nel risanamento amministrativo, nella pratica di governo.

Non più un polo a cui si contrappone un altro polo, ma una forte concentrazione politica che limiterà quello che sopravviverà dello schieramento politico, sia di destra che di sinistra, alla pura testimonianza, alla rappresentanza dei conflitti, lontano dalla mediazione istituzionale, dalle scelte di governo, dalla capacità di incidere.

Alla realizzazione di questa realtà paradossalmente concorrono sia una parte consistente dell’attuale centrosinistra che un’altrettanto consistente parte del centro destra, con il vantaggio indubitabile di Ds e Margherita per avere avviato il processo del Partito Democratico, che, se sarà portato a compimento, permetterà di dare al progetto centrista l’apparato organizzativo e l’organigramma dirigenziale, il luogo dove maturare le scelte e legittimare le decisioni, il logo per una nuova identità e nuove forme di appartenenza. Il Partito Democratico dovrà comunque acquisire il contributo dei moderati del centro destra, di cui oggi è disponibile il solo Follini, ma la possibile (auto)esclusione della sinistra Ds forse farà  rapidamente maturare anche Cesa e Casini.

Silvio Berlusconi, prigioniero del suo ruolo di tribuno della plebe, appannato da un’esperienza fiacca e opaca da primo ministro, tallonato dalla presenza ingombrante di Fini, appare in questo momento incapace di egemonizzare un processo di rifondazione del grande centro, che prevede doti di mediazione, capacità di confronto, abilità diplomatiche, alleanze disponibili e certe, progetti organizzativi, tutti elementi che gli sembrano mancare del tutto.

Tre appaiono le incognite: Romano Prodi, Gianfranco Fini e la sinistra radicale.

Il primo non sembra per niente disponibile a tornare a Bologna ad insegnare, chiudendo una vita politica che lo vede ancora primo ministro, con una larga maggioranza alla Camera e con il puntello sicuro di molti senatori a vita e di alcune nuove acquisizioni al Senato, con un contratto ormai di ferro tra le forze di maggioranza, con alle spalle una Legge finanziaria che permette risanamenti e investimenti, con un paese in crescita economica e una situazione internazionale che pretende in questo momento la stabilità dei governi in carica. Ma soprattutto è forte delle debolezze della Casa della Libertà, che non sembra voler giocare nessuna carta decisiva, né le elezioni anticipate, né la nuova legge elettorale, né le maggioranze variabili, né le larghe intese e che continua a non avere i numeri per far cadere il governo.

Il leader di Alleanza Nazionale non può accettare di essere emarginato dalla manovra neocentrista e farà pesare lo sdoganamento politico del post fascismo, il suo prestigio personale, l’accreditamento di AN come forza di governo nonché la sua forza elettorale. Tutti elementi sufficienti per una manovra difensiva, di tenuta di posizioni, di interdizione ma inadeguate per egemonizzare da destra un’operazione di così grande respiro che per di più trova in Berlusconi, l’alleato obbligato di Fini, il vero ostacolo, a meno che non ne sia il padrone assoluto e l’unico vero beneficiario.

La sinistra radicale, cioè l’insieme molto eterogeneo di PRC, PdCI e Verdi vedrebbe azzerata in un attimo una lunga marcia verso e nelle istituzioni, che ha sfiancato truppe né molto numerose né molto motivate, logorato gruppi dirigenti e perso per strada una buona parte del proprio bagaglio ideologico. Tornare al punto di partenza vorrebbe dire, per quella che non è neanche una coalizione ma una aggregazione occasionale di necessità, una sconfitta cocente, dalle conseguenze devastanti e con il rischio di ulteriori frammentazioni e diaspore. A meno che non prevalga la suggestione della purezza ideologica, della esemplarità della collocazione, della sacralità della testimonianza, senza una valutazione degli effetti dell’azione politica e nella disistima degli equilibri e dei rapporti di forza reali.

Se queste ed altre incognite (ad esempio il ruolo della sinistra DS) impediranno al momento la soluzione centrista della crisi, lo stallo attuale della politica italiana è destinato a durare, perché si continuerebbe a trascinare la fase di transizione cominciata (o esplosa) con Tangentopoli. Si confermerebbe così una eterma primavera, instabile, incerta, pronta a suscitare speranze ma anche immediate delusioni. La stagione del riacutizzarsi delle ulcere, del manifestarsi delle allergie, delle depressioni e dei malumori. Ma anche la stagione della rinascita: per una destra che però deve fare i conti con un tentativo di governo ed egemonia appena abortito e per una sinistra che deve comunque ripensarsi come soggetto politico, come linguaggio e categorie intellettuali, come sistema di valori, come cultura. E senza più neanche la speranza e la fede (di sinistra). Ma questo è un vantaggio.

8 marzo 2007

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