27 febbraIO 2007 A ciascuno il suo

Hanno fatto male i senatori Rossi e Turigliatto a non votare la relazione del ministro D’Alema sulla politica estera del Governo, ma non perché non fosse nel loro diritto dissentire e nel loro potere avere autonomia di giudizio e di voto, ma perché con il loro gesto hanno coperto ben altre contraddizioni e ben altre criticità, hanno permesso ad altri di stendere una cortina fumogena sulle debolezze della maggioranza, hanno offerto la sinistra come capro espiatorio delle incapacità e dei limiti dell’azione governativa. Se avessero dichiarato nell’aula del Senato la loro contrarietà ad ogni intervento militare italiano, i costi enormi che paga la nostra comunità in termini di risorse umane e finanziarie, le diseconomie e le disfunzioni che induce a livello nazionale e internazionale, votando a favore, non per disciplina di partito, ma per il mantenimento di un assetto politico e istituzionale che in questo momento rappresenta il minimo vitale per la democrazia italiana, avrebbero lasciato gli anatemi, le scomuniche e i riflettori mediatici  ai soli Andreotti, Pininfarina e Cossiga, i veri responsabili della caduta del governo Prodi.

In un momento come questo non si può essere ingenui né si può salvare la propria anima, perché l’anima non esiste. Esistono invece i conflitti sociali e un senatore o un deputato ha il dovere non di rappresentarli, quanto di adottare soluzioni legislative che li riconoscano, li legittimino, li risolvano. La testimonianza, lodevolissima, appartiene ad altri terreni e ad altri momenti, il chiamarsi fuori è indispensabile, ma dai giochi di potere, dalle logiche di ceto politico, dalla corruzione. Se si accetta un ruolo istituzionale (e nessun medico lo prescrive come soluzione terapeutica neanche di fronte alle peggiori malattie) non si va né a fare l’avamposto del proletariato, né a presidiare la cittadella del potere né tantomeno a minare le fondamenta dello stato borghese, ma a svolgere, a volte se non spesso, un umile e oscuro lavoro per sorreggere i migliori equilibri politici possibili, nella prospettiva di un avanzamento programmatico e un consolidarsi di rapporti di forza favorevoli o comunque non sfavorevoli. Soprattutto se si è parte della maggioranza governativa.

Sarebbe stato bello vedere Andreotti contro un Prodi che è stato ministro in un suo governo, un industriale come Pininfarina, senatore assenteista, mettersi di traverso alla ripresa economica in atto e negare il suo voto ad un interlocutore (troppo) attento allo sviluppo industriale, un ex presidente della repubblica, mai rimpianto ministro dell’interno al tempo del sequestro Moro, continuare con accanimento maniacale il suo ruolo di picconatore istituzionale, l’interprete più genuino del sovversivismo delle classi dirigenti. Non ci sarebbe stato bisogno di individuare alle loro spalle ipotetici mandanti o complotti di poteri forti, sarebbero bastate le loro facce di bronzo, le maldestre motivazioni a confermare o smentire, a piacimento, la loro storia, passata e recente.

Non abbiamo avuto questa soddisfazione (e la possibilità di una battaglia politica aperta e credibile) perché si sono frapposte le facce incredule e imbarazzate di Rossi e Turigliatto, la loro pretesa di una coerenza impossibile e incredibile, lo spettro del comunismo evocato da ex comunisti e post comunisti, gli eterni sospetti verso il trotskismo e i non ortodossi, l’insofferenza nei confronti del dissenso e la sua inaccettabilità, i malumori verso una sinistra quando è tale, cioè critica e antagonista.

Abbiamo invece la soddisfazione di dodici punti programmatici imposti da Prodi alla sua coalizione. Una risposta contingente e difensiva, priva di respiro politico, incapace di farsi carico di un disagio profondo e di un malessere diffuso che ha riempito alcuni mesi fa di due milioni di italiani Piazza San Giovanni a Roma su richiamo di Berlusconi.

Non minano la reale leadership della destra su interi gruppi sociali in sofferenza, dove domina una visione particolare e non generale della propria condizione, perché i dodici punti non ridanno legittimità e credibilità alla res publica, in tutte le sue manifestazioni, dalla scuola alla sanità, dalla ricerca scientifica ai trasporti, dalla produzione di energia alla tutela ambientale, dalla difesa del patrimonio culturale all’informazione pubblica, terreni su cui l’Italia è in grave, gravissima sofferenza.

Ma soprattutto i dodici punti non si pronunciano nei confronti del lavoro malpagato e pericoloso, della mancanza di lavoro o del lavoro negato con la precarietà, neanche prefigurano un progetto politico contro questo grande scandalo economico, sociale e morale, anche e soprattutto in una società moderna, ipertecnologica, informata, informatizzata, globalizzata.

Per questo hanno fatto male Rossi e Turigliatto, ma peggio di loro hanno fatto e faranno i rappresentanti di un sistema di partiti privo ormai di un effettivo consenso e non animato da vera partecipazione e che parla un linguaggio che è vuoto e insignificante per la maggioranza dei cittadini.

27 febbraio 2007

 

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