I due assassini della strage di Erba, sono due proletari.
Netturbino lui o meglio operatore ecologico, cameriera lei, donna di servizio, colf. Gente che vive del proprio lavoro, con stipendi sicuramente modesti. La mancanza di figli, un’accorta gestione famigliare, l’eliminazione di consumi superflui, hanno garantito comunque alla coppia una vita dignitosa, una casa, un garage dependance, un camper con cui viaggiare. La loro vita sembra apparentemente tranquilla, a detta di tutti, ma non priva di conflitti. Ma non sul lavoro e per il lavoro, non all’interno di una rete di relazioni sociali fatta di incontri, confronti e, perché no, di feste e rimpatriate con colleghi, amici, vicini, non dentro la rete parentale nell’ambito di ricorrenze, anniversari, rituali, festività. Niente di tutto questo. Il conflitto è uno, rivolto in una sola direzione, verso chi è non solo vicino di casa, ma è quasi intimo per la contiguità dei muri e delle pareti, per la obbligatoria condivisione di rumori domestici e con essi di stili di vita, di orari, di abitudini.
Un conflitto che si era manifestato in altre realtà, ma che a Erba era esploso perché a fare da detonatore c’era lo straniero, il diverso, l’altro, per di più né umile né sottomesso, neanche alle leggi, ma padrone in tutto della propria vita e con altri, italiani per giunta, pronti e disponibili a condividerla con lui. Una famiglia, composta da un magrebino e da una italiana, totalmente diversa da rappresentare una minaccia per i due, privi di amici, le relazioni con gli altri ridotte all’essenziale, annullate quelle con i parenti, anche i più stretti, imbozzolati dentro la loro casa, ordinata, pulitissima, l’unica dimensione per loro accettabile. E con l’unica evasione possibile, la vacanza in camper, in un’altra casa, questa mobile, anch’essa pulita e ordinata, in grado da sola, anche in un’altra città e con altri panorami, di ridurre all’essenziale i rapporti con gli altri e di continuare a garantire la piena autarchia. Chiunque rappresentava una minaccia a queste certezze, metteva in discussione questo equilibrio, in qualunque modo lo facesse, diventava automaticamente un nemico, un essere da odiare, da rintuzzare, da allontanare e, in estremo, da eliminare.
Diventava una questione di vita o morte, mors tua vita mea.
Questo potrebbe spiegare la furia omicida, l’accanimento sulle vittime, la spietatezza anche nei confronti del bambino, che era comunque, agli occhi degli assassini, un bambino africano, il figlio di uno spacciatore e di una poco di buono, di per sé quindi subumano, sottospecie, reietto.
Nella strage di Erba c’è una dose incredibile di razzismo, che noi italiani continuiamo a ignorare e a sottovalutare, nella continuità della favola degli “italiani brava gente”, ma c’è anche e soprattutto una dose massiccia di alienazione, di falsa coscienza, di smarrimento sociale prima che morale, di perdita secca di valori che erano anche di classe, di condivisione di modelli di vita intrisi di perbenismo, di egoismo individuale e sociale, di ignoranza e di miseria morale.
Eppure i due assassini hanno avuto sicuramente un nonno contadino e un padre operaio, hanno memoria di miseria e di emigrazione, conoscono lo sfruttamento sul lavoro, sanno quanto siano necessari per gente come loro sacrifici e rinunce.
Quanto basta per costruire una coscienza civile, per avvertire l’esigenza della solidarietà, per alimentare fedi e speranze in questa terra e oltre, per sentirsi parte di una comunità, per sviluppare un senso di identità, legato al lavoro, di cui essere orgogliosi.
Nella coppia non sembra esserci niente di tutto questo, se non la pianificazione maniacale della separatezza, della distanza e del distacco nella vita sociale e la riproposizione dell’interezza, dell’unità, dell’integrità nella coppia, nel rapporto complementare, nella complicità assoluta tra due esseri umani, in simbiosi contro tutto e tutti, dentro una casa, in una stanza, in un camper.
Non credo che per capire questa tragedia sia sufficiente il ricorso alle categorie psichiatriche. Qualcuno ha definito i due assassini degli psicopatici con tonalità dell’anima a bassa emotività e a scarso sentimento, parlando di silenzio del cuore. Il ricorso alla follia, in questo caso a due, è sempre rassicurante, tacita paure, rimuove inquietudini.
Qui c’è invece il silenzio della società, la perdita della sua credibilità, la rarefazione a livelli primitivi del senso di appartenenza, la solitudine di coppia per mitigare la fatica e la sofferenza di vivere, come in un’isola deserta, nell’intrico della giungla, nella profondità di una caverna.
12 gennaio 2007
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