4 dicembre 2006 Regime e libertà

Non è facile portare in piazza un milione di persone, figuriamoci due milioni. Oltre certi numeri si è al di là di capacità mobilitative, legate solo ad assetti organizzativi di partito e di apparato ed entrano in campo sentimenti e vissuti di massa, un disagio profondo, un malessere diffuso, una voglia di protesta insopprimibile.

L’afflusso di popolo a Roma il 2 dicembre sembrava lì per la protesta contro la Finanziaria, contro l’aumentata pressione fiscale e i mancati tagli degli sprechi e della inefficienza della pubblica amministrazione, per le liberalizzazioni inadeguate.

Il flusso di popolo appariva come l’insieme di produttori di ricchezza trattati come evasori fiscali, di imprenditori piccoli e grandi impediti nella loro missione sociale, di lavoratori autonomi ingiustamente penalizzati nei loro profitti, di professionisti umiliati e perseguitati, di titolari di rendite criminalizzati e additati al pubblico ludibrio, di pubblici dipendenti demotivati ed emarginati, di possessori di beni mobili e immobili demonizzati e sottoposti al sospetto e alla delazione pubblica.

Se così era che c’entra il regime e la libertà? Che c’entra l’ennesimo richiamo al pericolo comunista e alla dittatura? Che c’entra la democrazia? Che c’entrano i continui richiami ideologici? Che c’entra l’ossessiva evocazione di spauracchi e di demoni, di nemici e di complotti, l’ennesima denuncia di truffe elettorali e di persecuzioni giudiziarie?

C’entrava invece, ad esempio, il debito pubblico e come risanarlo, c’entrava la giustizia fiscale perché il carico delle tasse sia ubiquitariamente distribuito e se attenuato a scapito di quale istituto e servizio pubblico, c’entrava il rilancio della produttività non solo come aumento di tempi e ritmi di lavoro e contrazione dei salari, c’entrava la tutela del welfare e come sostenere finanziariamente anche il suo rilancio a fronte di vecchie e nuove emergenze sociali, c’entravano piani industriali seri per salvaguardare segmenti industriali ma anche sociali, come il trasporto aereo e ferroviario, la produzione energetica, l’autosufficienza alimentare.

Oppure, al limite, c’entrava il sostegno ad una piena liberalizzazione economica, con una totale privatizzazione di beni e servizi pubblici, con una esternalizzazione massiccia di funzioni e compiti sin qui assolti dallo stato, con una incentivazione massima della sussidarietà verticale e orizzontale, c’entrava l’azzeramento del welfare a partire dal Servizio Sanitario Nazionale per arrivare al sistema pensionistico, c’entrava la definiva chiusura della stagione dei diritti e con essa dei doveri, compreso quello di pagare le tasse.

C’entrava la piena legittimazione del profitto come bene e come valore, come unico motore economico e sociale, come status symbol, come regolatore di assetti e gerarchie sociali, come mission di singoli e di istituti, di istituzioni e di apparati, di una intera società.

Questo c’entrava con quella manifestazione, con quella piazza, con quei manifestanti, con quei cartelli e quegli slogan, alla vigilia del passaggio in Senato della Legge Finanziaria, a pochi mesi dalla fase delicatissima della riforma del sistema pensionistico e in mezzo alla assoluta necessità per questo governo di rilanciare il sistema paese, la sua economia, la sua forza finanziaria, il suo potenziale culturale e sociale, la sua credibilità politica.

Siamo invece alla ennesima autopromozione di Berlusconi, alla sua rinascita dopo sincopi, collassi, malori rappresentati in pubblico, alla sua riconferma come unico leader, indiscusso e indiscutibile, di una coalizione in cui il collante ideologico prevale su quello politico, in cui l’unica strategia è quella di far leva sugli egoismi individuali e di gruppo per realizzare un sistema che tuteli solo quegli egoismi, collassando solidarietà e protezione sociale, marginalizzando intere classi e gruppi sociali, in un avvitamento verso il basso della coesione sociale e della vita civile, in cui anche i consumi di beni, lo scambio delle merci, l’apertura di mercati saranno inevitabilmente coinvolti.

Lo ha capito Casini (ma non il suo partito) che ha preso le distanze da questo leaderismo esasperato, da questa povertà politica, da questa esaltazione ideologica, da questa ubriacatura populista.

Non lo può capire Fini, perché la figura del capo, tracotante e aggressivo, il delirio delle folle, la teatralità della politica, l’esaltazione della fede anziché della ragione, esercitano su di lui (e sul suo partito) un fascino irresistibile, annidato in un Dna che rimane sostanzialmente inalterato.

Che cosa ha capito il centrosinistra?

Ha capito che deve farsi carico di un disagio profondo e di un malessere diffuso che non abita solo in Piazza San Giovanni, ma in tante altre piazze, in tante altre città, in tanti altri uomini e donne?

Ha capito che il particulare , la visione particolare e non generale della propria condizione, si supera ridando legittimità e credibilità alla res publica, in tutte le sue manifestazioni, dalla scuola alla sanità, dalla ricerca scientifica ai trasporti, dalla produzione di energia alla tutela ambientale, dalla difesa del patrimonio culturale all’informazione pubblica, e che su questi terreni l’Italia è in grave, gravissima sofferenza?

Ha capito che la mancanza di lavoro o il lavoro negato con la precarietà rappresentano uno scandalo economico, sociale e morale anche e soprattutto in una società moderna, ipertecnologica, informata, informatizzata, globalizzata e non ne sono una variante fisiologica, inevitabile e accettabile?

Ha capito che le tasse sono sempre “di scopo”, cioè devono essere immediatamente riconvertite in servizi, in prestazioni, in opere pubbliche, in solidarietà sociale, in tutela civile, in salvaguardia di beni pubblici e che neanche un centesimo di euro deve essere perduto per inefficienza, per incapacità, per distrazione, per dolo, per interesse privato all’interno della pubblica amministrazione?

Ha capito che lo Stato in molti territori della Repubblica non può essere solo polizia e carabinieri (o esercito) ma soprattutto cultura della legalità, cultura del bene pubblico, cultura del rispetto e che tale cultura è un prodotto, il risultato di un fare, l’esito di azioni determinate, la conseguenza di allocazioni adeguate di risorse umane e materiali e della creazione di strumenti e canali specifici, dentro un tessuto sociale che trova coesione e identità in un sistema di valori partecipato e condiviso?

Ha capito che il linguaggio attuale della politica è vuoto e insignificante per la maggioranza dei cittadini e che l’attuale sistema dei partiti è privo di un effettivo consenso e non è animato da vera partecipazione, a fronte del crescere delle richieste e delle pretese della politica e dei partiti?

Se ha capito queste e altre cose, allora la manifestazione di massa di Piazza San Giovanni sarà una “spallata” mancata, la sola beatificazione di un capo, il manifestarsi di una fede e non di un progetto e, alla fine, anche un boomerang politico.

4 dicembre 2006

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